Il
Bottone di don Alfonso
A Napoli non piove mai,
c’è sempre il sole. Questo autunno ha voluto segnare la sua eccezione, piove
spesso. In sé è un bene, pulisce l’aria, le strade, un odore di foglie e legni
umidi condisce l’aria di un aroma di bosco, di castagne. Ad ottobre le strade
del Centro Storico hanno ognuna un angolo per i bracieri di caldarroste, altari
di un rito irrinunciabile. Mangiate nel cuppetiello
di carta marrone, calde, calde, che scottano le dita, lenite da soffi
vigorosi, per impegnarle temerariamente ancora nella sbucciatura del frutto
boschivo. Un rito che ci accomuna a tante città del mondo, dove i centri
storici scandiscono la stagione che prepara all’inverno con questo semplice
cibo di strada, naturale e buono. Ma alle più belle e antiche tradizioni, un
tempo infausto ha posto il suo chiavistello, rinviandole a tempi migliori, in
un futuro di speranza. Oggi le strade sono vuote, deserte. Quando piove, l’acqua
scivola via, il suo scroscio si perde negli spazi tra gli antichi palazzi, nel
gorgoglio dei tombini, nel gocciolio delle grondaie. L’esperienza di
passeggiare nell’antica città deserta mi è familiare. Mi rimanda ad anni, molto
lontani, quando dopo le sette di sera non c’era una luce accesa e di giorno chi
la percorreva aveva solo necessità di spostamenti per affari quotidiani. Non era
visitata, ammirata, cantata. Per me invece già dai lontani anni ottanta è stata
il mio luogo di rifugio, la mia casa, dentro le mura. Scendo dalla collina, dal
Vomero. Arrivo alla fermata della funicolare di Montesanto proprio per rientrare
attraverso la città antica. Piove, ma che importa, gli ombrelli servono a
questo. All’imbocco di via Capitelli la pioggia ha già smesso, lascia traccia
di se nel lucido dei basolati bagnati che riflettono la luce filtrata dalle
nuvole grige. Piperno e pietra lavica si prestano bene a dare forma ad un’atmosfera
pittorica, poetica, antica. Ripiego l’ombrello che punta non più il cielo, ma
il terreno ed il tocco del puntale scandisce il mio passo mentre entro nella
piazza con la Madonna Immacolata, che ha sconfitto col suo calcagno ogni male.
L’obelisco che la celebra è alto 34 metri e la piazza che l’accoglie, in quella
tipica formulazione delle cose napoletane, si chiama del Gesù Nuovo. La chiesa
che ha la facciata a punta di diamante ha avuto la prelazione sull’intitolazione.
Una piazza larga, ampia, condivisa con la basilica francescana di Santa Chiara.
Di fatto è un sagrato, tra due chiese, come tutte le piazze della città antica.
Mi dirigo sul lato sud, dietro l’edicola, dove è consuetudine che mi fermi a pregare
la mia devozione alla Madonna e alle anime del Purgatorio. Alla basa dell’obelisco
c’è una targa a firma del settecentesco papa Benedetto XIV, che sugella la
concessione dell’indulgenza plenaria per un’anima defunta, per ogni atto di
devozione compiuto in quel luogo alla Madre di Nostro Signore. Mi
accorgo che seduta a ridosso del muro di S. Chiara c’è una donna. Accanto ha l’ombrello
aperto, capovolto. Si deve essere riparata durante la pioggia e lo ha riposto a
suo modo al termine. Ha avuto cura di stendere una sorta di telo, con se ha
alcune buste. Non cerca nulla, né vuole essere disturbata. Chi vive per strada
ha familiarità con le intemperie e la pioggia di un tiepido autunno non la sconcerta.
Quel momento di preghiera è speciale, per fissare lo sguardo all’effige dell’Immacolata
è necessario guardare in alto, molto in alto, guardare il cielo. Gli occhi del
cuore sono umidi, come è possibile la vita per strada di tante persone? Che
sono sempre gentili, umili, miti. Che posso fare? O Cielo perché mai non fai
qualcosa? Da sud si accede alla piazza dalla Calata Trinità Maggiore, anche
quello è un nome che per un tempo ha avuto la chiesa a punta di diamante, mi
accorgo che sale una figura familiare. Un vecchietto minuto, con giacchetta e
coppolina. Gira per la città deserta sperando un un’elemosina. Un un povero da
sempre, un povero storico. La sua vocina è minuta, gentile, sonora. La stessa
dei cantanti di una volta. Anche lui si diletta nel canto. Mi viene incontro,
sono fermo e gli è facile raggiungermi. Ha riconosciuto il gesto di preghiera
nel quale mi ero raccolto e non mi vuole disturbare, si ferma a distanza. Cosa
può essere di più giusto di lasciarsi disturbare dalla povertà? Gli sorrido e
lui fa altrettanto. Mi avvicina per conversare. Il tempo, la città vuota, la
difficoltà di questo tempo. Mi racconta che nella piazza viene per andare alla
mensa dei francescani, che i frati hanno aperta nello spazio tra il convento
maschile e quello delle sorelle di clausura. Piccola, ben tenuta, con volontari
che offrono anche il calore di un momento di amicizia, di uno scambio di
parole. Però è chiusa. La forza invisibile che ci domina ha dettato regole che
invadono aspetti che si credevano inviolabili. <<Raccolgo quello che
posso per farmi un panino o comprare un piatto caldo>>. Non chiede nulla,
racconta e sorride con le labbra in ombra sotto la visiera della coppolina. I
suoi occhi sono tinti dalla lava bagnata che ci circonda. Materia vulcanica,
eruttata dalla sofferenza, per trovare poi la sua forma pacificata, pregna di
storia. Parla di speranza, che nella vita non bisogna mai abbattersi. C’è gioia
anche nel poco. E pure se capitano delle contrarietà bisogna sempre ritrovare
il sorriso. <<Ad esempio una signora mi ha dato qualcosa poco fa. Qualche
monetina… ed un bottone>>. Coglie il punto interrogativo che la mente
disegna facendomi piegare il collo e avvicinare le sopracciglia. <<Ha
aperto il borsellino e mi ha messo in mano delle monetine…, insieme ad un
bottone.>> <<Mo’ di questo bottone che me ne faccio? Mica posso
andare in salumeria e chiedere un piatto di pasta e dire vi do un
bottone?>>. Accenno una difesa della sconosciuta donna che sospetto essere
anziana, “forse non ha visto”. <<Vabbe’, non ha visto... Ma un bottone si
tiene nel cassetto, si cuce su una camicia, mica si mette nel borsello. Che ci
faceva nel borsello? E poi io che me ne faccio? Nemmeno c’è l’ho la
camicia>>. Scherza, mi fa sorridere. Guardo l’altra donna, ancora seduta
sul marciapiede, assorta con lo sguardo sulla piazza, per niente attratta dalla
nostra conversazione. Allungo le mani nella mia tracolla per prendere il
portamonete. <<Mi farebbe piacere conoscere il vostro nome, io mi chiamo
Arturo>>. <<Alfonso. Che piacere, due A iniziali e quasi
uguali>>. <<Tutti e due un po’ spagnoli. Don Alfonso se mi
permettete vorrei offrirvi qualcosa da parte mia ed anche da parte della signora
di cui mi avete raccontato.>>. <<Perché mai?>>.
<<Diciamo che il bottone vi ha portato bene. Poi siamo sotto lo sguardo
della Madonna>>. Alza la testa, ed accenna un segno di croce. Raccolgo
qualcosa dal portamonete e glie lo porgo. <<Cosicché voi dite che il
bottone porta bene?>>. <<Non sono superstizioso, dico solo che
dovete andare via contento, diciamo “bottone benedetto”>>. <<Allora
mi dovete permettere di ricambiare>>. Sono spiazzato per un attimo.
<<Vi faccio dono del bottone benedetto. Così anche io benedico
voi>>. Vorrei ricusare, ma non c’è ragione. <<E no dovete
accettare. Voi avete detto che il bottone è una benedizione? Ed allora per
ringraziarvi vi voglio benedire e vi regalo il bottone>>. Sorridiamo
insieme. Forse anche la signora seduta, che
mi pare ora stia guardando verso il cielo. Ci salutiamo come si usa oggi,
incrociando gli avambracci e ringraziandoci a vicenda. Guardo ancora la donna
seduta. Mentre don Alfonso si allontana mi ricorda:<<Sorridere sempre.
Nessuna avversità deve cancellare il sorriso>>. Nel palmo ho il bottone
di don Alfonso, che racchiude la storia di quel momento d’autunno ai piedi dell’Immacolata.