sabato 28 gennaio 2017

Martedì 19 agosto 2014
                         
I due Luca
Luca Giustini e Luca Barisonzi per una strana convergenza del destino si chiamano allo stesso modo, ma sono in qualche modo figure rappresentative di due differenti approcci all'esistenza. Il primo Luca lavora per le Ferrovie dello Stato, ha 34 anni e ha appena ammazzato la moglie e il figlio di 18 mesi. Il secondo è un alpino dell'esercito italiano, che ha appena scalato una montagna, il Monte Rosa, un'impresa resa speciale dal fatto che lui è paraplegico. Si trova sulla sedia a rotelle a causa di un attentato subito in una missione in Afghanistan. Per inciso, ha 24 anni.
Luca Giustini tra le ultime frasi, raccontate da testimoni, prima dell` efferato delitto ha detto "Non mi sento amato". Luca Barisonzi, una volta riuscita l'impresa, ha dichiarato "Non mi sono mai sentito così vivo".
Il ferroviere ha seguito un percorso psichico distruttivo. La sua situazione familiare era coerente con le aspettative canoniche: buon lavoro, una buona famiglia, tutto filava liscio. Il dramma tutto interiore ha messo in moto un meccanismo di morte. Lo psichiatra intervistato da Avvenire spiega che il meccanismo criminale ha funzionato con una dissociazione, che ha trovato nella eredità genetica della razza umana l'autorizzazione a compiere il drammatico gesto. In effetti nel nostro patrimonio antropologico c'è la cultura del sacrificio umano per il raggiungimento di una felicità.
Nella mente dell'alpino si è attivato il meccanismo della risalienza. Quella determinazione ad un'azione costante e prolungata per il conseguimento di un obiettivo di lunga durata.
Il primo Luca, l'assassino possiamo dire, in una vita ordinata non ha trovato più le ragioni profonde del vivere.
Il secondo Luca, lo scalatore in tutti i sensi, in una vita distrutta con un fisico paralizzato ha ritrovato nello spirito le motivazioni più efficaci per affrontare la sfida di una scalata esteriore ed interiore.
Queste storie vere ci aiutano a mettere a fuoco una riflessione sulla vita, il suo intreccio, il suo sviluppo, ma soprattutto del nostro modo di giudicare la storia, delle possibilità che abbiamo di affrontarla. Nel primo salmo, il portale dei poemi di preghiera si dice subito che l'uomo ha davanti a sé due vie. Lo psichiatra ci informa che ciascuno di noi ha dei meccanismi potenzialmente attivabili che possono indurre a scegliere coerentemente azioni distruttive. Allo stesso modo il medesimo potenziale mentale può essere indirizzato a compiere azioni apparentemente impossibili e fuori dalla nostra portata. Tenete bene a mente che i due Luca sono persone ordinarie e nessuno dei due aveva in programma nella vita di compiere nulla di extra-ordinario. Formarsi giorno per giorno ad affrontare l'ordinario è una necessità da assecondare con perseveranza quotidiana. Nella mia esperienza non ho saputo trovare un percorso più efficace della preghiera e dei sacramenti. Ma ciascuno deve trovare il suo percorso di formazione e ricordarsi che non c'è nulla di più inutile e più pericoloso che restare inerti.
                                                        Arturo Lanìa

giovedì 26 gennaio 2017

Francesco Nembrini - Chi ama educa
La sola di Gaetano

Ci sono tante cose di cui uno si innamora. Anche di certi capi di abbigliamento. Come i miei stivaletti marrone, tipo inglese, di ottima marca. Li comprai d’occasione in un mercatino, l’ultimo paio rimasto, un po’ in disparte, su una stuoina. Andammo subito d’accordo. Come li calzai si adattarono subito a me, come nemmeno un cagnolino saprebbe. Pagati poi un terzo del loro valore di negozio, spiega bene l’immediato entusiasmo dell’acquisto. Ne abbiamo fatta di strada insieme. Sotto ogni clima e sopra ogni sentiero. Anche in momenti diversi, sono stati sempre con me. Insomma un poco di vita insieme. Da quando li calzai la prima volta sono passati alcuni anni. I miei capelli grigi, che oramai tendono al monopolio della testa, raccontano gli anni trascorsi. Ed anche gli stivaletti hanno segni che rivelano l’età. Così l’anno scorso li portati a riparare. Tacchi nuovi, qualche punto di colla, una rigenerata della tomaia. Sempre belli da vedere. Non come nuovi.. Ma questo li rende più attraenti, la pelle ha preso il colore dell’uso, che le da l’alone di affidabilità. Però un problema era rimasto. All’interno la soletta aveva ceduto, e camminando il tallone faceva male. Le solette tradizionali non si sono mostrate soluzioni adatte. Se le scarpe non possono usarsi per camminare a cosa servono? A essere buttate via come un certo sale senza sapore, o un certo albero di fichi senza frutto. Eppure sono troppo belli. La storia che abbiamo condiviso, la forma che hanno preso su di me, troppe cose per buttarli via così. Così li ho tenuti un altro anno. Dico sul serio. Ma il terzo il loro destino è sembrato davvero ineludibile. Il momento di buttarli non aveva motivo di essere rimandato Passeggiare, l’ho scrivo spesso, è un’attività salubre che offre tante nuove esperienze. Soprattutto conversando con le persone. Una mattina di questo inverno, passeggiando con gli amici, tra cui il saggio Gaetano, questi butta lì l’argomento. _Guagliù, se sapeste che maggiù accattato. Nu’ paio ‘e solette troppo belle_. A Napoli, troppo bello sta per tutto, buono, divertente, soddisfacente e comodo. Insomma due suole di tecnologia moderna, con capacità auto modellante. _Guagliù accattatavelle_ Compratele. A Napoli quando una cosa è “bella” va condivisa con tutti. Le ho prese anche io. Gaetano grazie. La _sola_ di Gaetano ha salvato la vita ai mie stivaletti inglesi. Mi calzano anche meglio di prima, posso tenerli al piede un’intera giornata ed è sempre un piacere. Ne faremo ancora tanta di strada insieme. Quindi altre passeggiate. Durante le quali mi propongo di tornare su questa storia. Se avessi buttato via i miei stivaletti due anni fa, me ne sarei privato per sempre. Ed oggi starei a dire, _quando una cosa ha fatto il suo tempo va solo buttata_ . La logica delle cose indicava cosa fare. L’evidenza rendeva inevitabile il destino. Eppure, nella storia, sia la logica che l’evidenza si dimostrano sistemi falsi, capaci di distruggere e non di trovare soluzioni. L’attesa con una incerta speranza, che in qualche modo ancora non visibile, avrei trovato una soluzione. Il combinarsi con una nuova tecnologia, che ha ridato pieno vigore alla struttura più vecchia, ma efficiente e perfettamente in grado di offrire ancora molto. Una semplice passeggiata e una condivisione tra amici. Queste cose, sono servite a ridare vita ad un oggetto solo apparentemente inservibile. Inservibile, ma non inutile. Cosa mi ha trattenuto dal disfarmene? La forza della memoria. Quante situazioni mi ricordo indossando questi stivaletti. Che peccato se me ne fossi disfatto. Inoltre sarebbe mancato questo insegnamento. *Speranza, memoria, condivisione* . Tutte cose non-visibili. *Invisibili*. Ricordo di un certo libro in cui è scritto, _l’essenziale è invisibile agli occhi_. In un altro, che _la realtà è fatta da cose visibili e invisibili_ .Troppa fiducia sul giudizio definitivo, fondato sui sistemi della logica e della evidenza, quanti danni producono ogni giorno. E quando invece che stivaletti sono sistemi buoni per le persone, o sono addirittura persone, allora sì che aver chiaro che né la logica né l’evidenza sono la verità su quello che può succedere, su quello che si può ancora fare, può tornare molto, molto utile. Come sono belli i miei stivaletti con cui posso ancora camminare. E camminando mi verrà a mente spesso la _sola di Gaetano_.

Arturo Lanìa

lunedì 23 gennaio 2017

Il Regalo di Natale

Passeggiare è una grande opportunità che si da a se stessi. Ne ho fatto un’arte, o come si dice un hobby. Passeggio da solo, aiuta a mettere in ordine i pensieri ed emozioni. In compagnia, ascoltando storie. Fanno crescere le *convinzioni* che si hanno sulla vita. Certo bisogna sapere ascoltare, anche di questo ho fatto un’arte, ma lo racconterò un’altra volta. Domenica, ho passeggiato con il mio amico Gaetano, che è un tipo saggio. Un piacere ascoltarlo sempre nei ragionamenti, però alle *convinzioni* degli altri preferisco l’ascolto delle loro storie. Si apprende di più e si possono ricavare insegnamenti inattesi. Come il racconto del regalo di Natale del figlio di Gaetano. La storia si presenta con un titolo suo, _Il Regalo di Natale_, questo la rende già particolare. La fidanzata del figlio ha pensato bene di regalare un drone con telecamera. Un oggetto divertente, ancora di più per un tecnico come lui. Dopo qualche tempo però, l’oggetto volante ha smesso di funzionare. Si alzava in volo ma finiva con rollare e cadere. Dispiacere generale, ma senza panico, sia il padre che il figlio sono tecnici, a differenza di me che non ho nessuna inclinazione, ma questa è un’altra storia. Il seguito di questa che sto raccontando offre ben due insegnamenti da attingere dalla soluzione. Il mio amico Gaetano, uomo d’età, va detto in quanto necessario al racconto, ha subito pensato a smontare il drone, per intervenire sulle parti meccaniche per lui, evidentemente,  mal funzionanti. Il giovane figlio, ha puntato a trovare la soluzione con un reset del software di pilotaggio. Azione non immediata, come smontare le parti meccaniche. Infatti bisogna conoscere la procedura. Il mondo contemporaneo ci mette a disposizione la Rete e i canali You Tube dei vari _tutor_. Così imparata la procedura, fatto il _reset_, il simpatico drone è tornato a volare. Questo il racconto. Vero tra l’altro. Da qui si dipanano due insegnamenti. Il primo, individuato dal narratore Gaetano. Le due generazioni a confronto hanno ragionato con schemi differenti. Il risolutivo è stato quello del giovane. Davanti a questa evidenza ognuno può pesare le proprie *convinzioni*. L’altro filo per tessere un insegnamento, riguarda proprio il _reset_ . Un paio di citazioni evangeliche mi stanno davanti e vanno ad inquadrare l’episodio in una cornice speciale. Gesù stesso, potremmo dire, parla di reset. Sottolinea la necessità che la novità della sua predicazione può essere accolta da una novità di *convinzioni*. Lo spiega con l’analogia della toppa nuova sul vestito vecchio che finisce per strapparlo. O con il vino nuovo che in otri vecchi finisce per romperli. E per essere chiaro fa il famoso discorso con le preposizioni affrontate: << _Avete sentito che…, ma io vi dico…_ >>. A braccetto con l’insegnamento del _reset_ come azione necessaria per _tornare a volare_ , e non mi riferisco solo al drone, nella storia si racconta della necessità di una procedura, di un metodo. Che non è troppo difficile da conoscere se uno si dedica. Occorre tenere presente che l’improvvisazione è uno schema sbagliato. Sinceramente sono *convinto* che continuando a pensare al racconto si possono ricavare anche altri insegnamenti. Questi però bastano, soprattutto sul piano spirituale. Quello che Papa Francesco ha detto all’_Angelus_ di Domenica mi torna utile per una conclusione efficace. << _La conversione è un cambiamento del modo di agire. Prima però vien il cambiamento del modo di pensare_ >>. Le nostre *convinzioni* sono l’opportunità o il limite dell’esistenza. Lavorare su quello di cui siamo *convinti* è lavoro da artista.
Come si conviene per ogni buona storia, ringrazio Gaetano, il figlio e naturalmente la fidanzata.
                                                                                                                                             Arturo Lanìa


giovedì 19 gennaio 2017

Pazzo, magari

Pazzo, magari. Una volta un mio amico, caro, Riccardo, mi ha dato del pazzo. Mi ricordo di una volta anni fa, sembravi un pazzo. Da tutta la vita leggo libri. A furia di leggere, si sa, le cose si imparano. E si finisce per far sapere che sai. Correggi oggi, correggi domani, un poco antipatico ti fai. Non è che le persone ti vogliono male, ma il desiderio di ridimensionarti le anima. Così non potendo correggerti, buttano lì frasi sul personale. Sai tutto tu. Che presunzione. Chissà dove lo hai letto. Vai troppo oltre. Ma poi in fondo in fondo, sei pazzo. Insomma, se non ti offendi, almeno ti offendono. Comunque tutte cose da lasciar perdere, frasi da ignoranti. Però la pazzia è un fatto diverso. Desiderabile. Ha a che fare con l’estraneità.  Quando passi la vita tra le idee, l’estraneità la ambisci. Attiva la creatività. Se hai delle idee, poi, per realizzarle ci vuole. Ha a che fare con la santità. E che, no? Le storie di santi in verità mi mancavano. Sono letture recenti, contemporanee. Prima mi disinteressavo ai santi. Mi avevano fatto capire che fossero inimitabili. Poi, dopo tanti Papi Santi, è arrivato il papa peccatore. Quando uno si presenta come te finisce che lo ascolti. E fosse niente. Finisce che capisci anche quello che dice. Così volendo mettere in pratica certe sue indicazioni, circa il modo di seguire Gesù, la curiosità di capire come hanno fatto quelli, i santi, i super della fede, viene. Anche per la curiosità ci vuole un poco di pazzia. C’è del rischio ad essere curiosi. Si sa. Difatti. Ho scoperto che i santi, quei tipi super e inimitabili, nemmeno hanno bisogno di essere imitati. Già mi somigliano. Gente fragile, abbastanza sfortunata, disadattata, creativa e sufficientemente strana da essere matta. Diciamolo così, è più elegante, più narrativo. Santa Faustina Kowalska, Santa Teresa di Lisieux, per dire le sante a me più vicine. Ma tutto l’elenco dei santi è fatto da personaggi dai tratti e dagli episodi singolari che li fanno entrare nella categoria detta. Ma senza impelagarmi in una lista infinita di racconti, basta che faccio un altro nome, san Giovanni di Dio. In manicomio c’è proprio stato, probabilmente per disturbo bipolare. Fatti suoi, certamente. Solo che è il fondatore dell’ospedale moderno, così come lo conosciamo oggi. La sua frase più famosa, persino più famosa di lui, fate bene fratelli. Gli ospedali che di questa frase hanno titolato la loro organizzazione sono diffusi in tutto il mondo. Santità, creatività, follia. Nel 2005 vince il Premio Campiello un autore che nel manicomio ha passato la giovinezza, Pino Roveredo. Oggi affermato scrittore, padre di famiglia, sostenitore di progetti accanto agli ultimi. Anche per questo ci vuole follia. Proprio accogliere è l'atto della follia. Matti sono quei genitori che accolgono i figli nati con malattie gravi. Matti sono quelle coppie che si perdona e restano unite. Matti sono quelli che lasciano la propria vita comoda per stare accanto agli ultimi. Che poi ultimi, cosa li rende? Il giudizio di chi non li conosce, non li vede.  Ho un ricordo di quando feci esperienza con le suore di Madre Teresa di Calcutta, le Missionarie della Carità. La vita mi aveva fatto letteralmente a pezzi. Credevo che non mi sarei mai ripreso. Poi inizio a collaborare con le suore, tra le esperienze, accanto ai malati mentali. Una volta avevo in affido un fratello del manicomio criminale, che fu ospitato per un tempo presso la nostra casa. Un gigante enorme e potente, docile e gentile. Quando il suo psichiatra venne a trovarci mi colpì molto. Alto, magro, cappotto di pelle, occhiali Top Gun neri, capelli lunghi, un’aria da capo della mala dei film anni Settanta. Gli chiesi, professore ma come mai Mario qui è tranquillo, sereno, docile? Mi rispose. Lo vuoi sapere? Qui si sente amato. Ci credo, se l’ho chiamato fratello, è dovuto al fatto che lo consideravo uguale a me. Tra matti, si va d’accordo. Tra gli ultimi, cominci a vedere il mondo invisibile. Fatto di persone concrete, con storie, famiglie, fallimenti, sentimenti. Quindi corporei, reali. Insomma, gli invisibili non sono spiriti, sono non visibili. Non li vedi. Anzi non li vedono. Infatti ho imparato a vederli. Una volta fui chiamato a dare una testimonianza ad un gruppo di scout. Raccontai loro che le suore e i poveri avevano in comune una caratteristica, si ricordano sempre il tuo nome. Anche a distanza di anni. Si ricordano il nome e la tua storia. Per loro sei persona, il tuo nome conta. Infatti agli invisibili, agli ultimi, a quelli ai margini, ai matti, mi è stato facile raccontare la mia storia. I miei fallimenti, le mie fragilità, la mia follia. In questo modo ho ricucito il tessuto strappato, la trama sfilacciata dell'esistenza. Ho ritrovato il senso di camminare nella vita, e camminando ho ritrovato una direzione da percorrere, per trovare un Dio fattosi Gesù. Un Gesù che ha voluto mettersi qui, accanto, insieme a tutte queste fragilità, debolezze, follie. Un Gesù che per amarlo, in questa vita fatta così, pensando che lui ne è l’autore, ci vuole una bella dose di follia. Allora, pazzo? Magari.

mercoledì 18 gennaio 2017

Ho fatto una passeggiata tra i miei pensieri

Ho fatto una passeggiata tra i miei pensieri, gettando un occhio ai ricordi. Come si fa con le vetrine illuminate dei negozi, passeggiando lungo il corso. Un’occhiata ad una giacca particolare, un sguardo incuriosito per un oggetto nuovo, lo sfizio di leggere un prezzo inaccessibile, per dire chi se lo compra, o altri commenti qua e là. Rende piacevole passeggiare, fa compagnia anche se si è da soli. Così i frammenti dei ricordi, attratto da quella luce che viene dai più belli. Cose fatte in gioventù, momenti dell’infanzia, commentando bei tempi, o tempi che non tornano più. Ho scorto anche qualcosa di più recente, della maturità, degli anni della vita adulta. Certo, a lasciarla libera la mente, entra in quel dedalo di vicoli bui, oscuri, a volte soffocanti, dei momenti peggiori. Eppure mi domando se certe oscurità della vita non fossero altro che accadimenti come altri. Solo la risposta, lo stato dell’animo triste, li abbia resi negativi, bui. Certo se una considerazione vale per un aspetto il suo contrario è soggetto alla stessa regola. Ho forse goduto di momenti belli proprio grazie all’animo che era pronto a riconoscerli ed accoglierli? Sinceramente spero proprio che funzioni così. Infatti significherebbe che portare la mente alla pace, al bene, al buono, al bello, significa poter riconoscere pace, bene, buono e bello in tutte le situazioni tutti i giorni. Mettendo insieme tante luci, pare che si illuminino anche i vicoli che le precedono e le seguono. Trovando luce nei miei ricordi sembra che essa si espanda, si estenda, si diffonda. Anche lo spirito presente ha percezioni positive e tutto si riflette sulle azioni, sui pensieri. Insomma, ricordare il bene, mi porta il bene oggi. Così, pian piano un pensiero chiama un altro pensiero, magari una domanda. E se Dio ci fosse sempre stato? Se Lui fosse quella luce e la sua presenza avesse subito gli offuscamenti dell’animo, tanto da non essere riconosciuta? Porto di nuovo la mente a quei frammenti e già mi sembrano più grandi, mi appaiono come strutture. Accadimenti pensati, voluti, per niente accidentali. Comprendo che è una strada su cui tornare a passeggiare. Da ripercorrere con l’animo leggero. Serve leggerezza per restare ancorati in ogni tempo. Anche questo l’ho imparato in una passeggiata. Sulla bancarella di Alfredo, che gira il momento in cerca di oggetti artigianali particolari. C’era una libellula di legno, sottile e leggera, del Perù. Ora la tengo appoggiata per la punta, all’angolo della libreria. Soffio, spingo, sollecito, la libellula si muove, ma resta sempre salda. Questa luce che ho visto mi da uno spirito da libellula. Ho fatto una bella passeggiata tra i miei pensieri.
                     Arturo Lanìa