domenica 13 dicembre 2020

 

Il Bottone di don Alfonso

 

A Napoli non piove mai, c’è sempre il sole. Questo autunno ha voluto segnare la sua eccezione, piove spesso. In sé è un bene, pulisce l’aria, le strade, un odore di foglie e legni umidi condisce l’aria di un aroma di bosco, di castagne. Ad ottobre le strade del Centro Storico hanno ognuna un angolo per i bracieri di caldarroste, altari di un rito irrinunciabile. Mangiate nel cuppetiello di carta marrone, calde, calde, che scottano le dita, lenite da soffi vigorosi, per impegnarle temerariamente ancora nella sbucciatura del frutto boschivo. Un rito che ci accomuna a tante città del mondo, dove i centri storici scandiscono la stagione che prepara all’inverno con questo semplice cibo di strada, naturale e buono. Ma alle più belle e antiche tradizioni, un tempo infausto ha posto il suo chiavistello, rinviandole a tempi migliori, in un futuro di speranza. Oggi le strade sono vuote, deserte. Quando piove, l’acqua scivola via, il suo scroscio si perde negli spazi tra gli antichi palazzi, nel gorgoglio dei tombini, nel gocciolio delle grondaie. L’esperienza di passeggiare nell’antica città deserta mi è familiare. Mi rimanda ad anni, molto lontani, quando dopo le sette di sera non c’era una luce accesa e di giorno chi la percorreva aveva solo necessità di spostamenti per affari quotidiani. Non era visitata, ammirata, cantata. Per me invece già dai lontani anni ottanta è stata il mio luogo di rifugio, la mia casa, dentro le mura. Scendo dalla collina, dal Vomero. Arrivo alla fermata della funicolare di Montesanto proprio per rientrare attraverso la città antica. Piove, ma che importa, gli ombrelli servono a questo. All’imbocco di via Capitelli la pioggia ha già smesso, lascia traccia di se nel lucido dei basolati bagnati che riflettono la luce filtrata dalle nuvole grige. Piperno e pietra lavica si prestano bene a dare forma ad un’atmosfera pittorica, poetica, antica. Ripiego l’ombrello che punta non più il cielo, ma il terreno ed il tocco del puntale scandisce il mio passo mentre entro nella piazza con la Madonna Immacolata, che ha sconfitto col suo calcagno ogni male. L’obelisco che la celebra è alto 34 metri e la piazza che l’accoglie, in quella tipica formulazione delle cose napoletane, si chiama del Gesù Nuovo. La chiesa che ha la facciata a punta di diamante ha avuto la prelazione sull’intitolazione. Una piazza larga, ampia, condivisa con la basilica francescana di Santa Chiara. Di fatto è un sagrato, tra due chiese, come tutte le piazze della città antica. Mi dirigo sul lato sud, dietro l’edicola, dove è consuetudine che mi fermi a pregare la mia devozione alla Madonna e alle anime del Purgatorio. Alla basa dell’obelisco c’è una targa a firma del settecentesco papa Benedetto XIV, che sugella la concessione dell’indulgenza plenaria per un’anima defunta, per ogni atto di devozione compiuto in quel luogo alla Madre di Nostro Signore.   Mi accorgo che seduta a ridosso del muro di S. Chiara c’è una donna. Accanto ha l’ombrello aperto, capovolto. Si deve essere riparata durante la pioggia e lo ha riposto a suo modo al termine. Ha avuto cura di stendere una sorta di telo, con se ha alcune buste. Non cerca nulla, né vuole essere disturbata. Chi vive per strada ha familiarità con le intemperie e la pioggia di un tiepido autunno non la sconcerta. Quel momento di preghiera è speciale, per fissare lo sguardo all’effige dell’Immacolata è necessario guardare in alto, molto in alto, guardare il cielo. Gli occhi del cuore sono umidi, come è possibile la vita per strada di tante persone? Che sono sempre gentili, umili, miti. Che posso fare? O Cielo perché mai non fai qualcosa? Da sud si accede alla piazza dalla Calata Trinità Maggiore, anche quello è un nome che per un tempo ha avuto la chiesa a punta di diamante, mi accorgo che sale una figura familiare. Un vecchietto minuto, con giacchetta e coppolina. Gira per la città deserta sperando un un’elemosina. Un un povero da sempre, un povero storico. La sua vocina è minuta, gentile, sonora. La stessa dei cantanti di una volta. Anche lui si diletta nel canto. Mi viene incontro, sono fermo e gli è facile raggiungermi. Ha riconosciuto il gesto di preghiera nel quale mi ero raccolto e non mi vuole disturbare, si ferma a distanza. Cosa può essere di più giusto di lasciarsi disturbare dalla povertà? Gli sorrido e lui fa altrettanto. Mi avvicina per conversare. Il tempo, la città vuota, la difficoltà di questo tempo. Mi racconta che nella piazza viene per andare alla mensa dei francescani, che i frati hanno aperta nello spazio tra il convento maschile e quello delle sorelle di clausura. Piccola, ben tenuta, con volontari che offrono anche il calore di un momento di amicizia, di uno scambio di parole. Però è chiusa. La forza invisibile che ci domina ha dettato regole che invadono aspetti che si credevano inviolabili. <<Raccolgo quello che posso per farmi un panino o comprare un piatto caldo>>. Non chiede nulla, racconta e sorride con le labbra in ombra sotto la visiera della coppolina. I suoi occhi sono tinti dalla lava bagnata che ci circonda. Materia vulcanica, eruttata dalla sofferenza, per trovare poi la sua forma pacificata, pregna di storia. Parla di speranza, che nella vita non bisogna mai abbattersi. C’è gioia anche nel poco. E pure se capitano delle contrarietà bisogna sempre ritrovare il sorriso. <<Ad esempio una signora mi ha dato qualcosa poco fa. Qualche monetina… ed un bottone>>. Coglie il punto interrogativo che la mente disegna facendomi piegare il collo e avvicinare le sopracciglia. <<Ha aperto il borsellino e mi ha messo in mano delle monetine…, insieme ad un bottone.>> <<Mo’ di questo bottone che me ne faccio? Mica posso andare in salumeria e chiedere un piatto di pasta e dire vi do un bottone?>>. Accenno una difesa della sconosciuta donna che sospetto essere anziana, “forse non ha visto”. <<Vabbe’, non ha visto... Ma un bottone si tiene nel cassetto, si cuce su una camicia, mica si mette nel borsello. Che ci faceva nel borsello? E poi io che me ne faccio? Nemmeno c’è l’ho la camicia>>. Scherza, mi fa sorridere. Guardo l’altra donna, ancora seduta sul marciapiede, assorta con lo sguardo sulla piazza, per niente attratta dalla nostra conversazione. Allungo le mani nella mia tracolla per prendere il portamonete. <<Mi farebbe piacere conoscere il vostro nome, io mi chiamo Arturo>>. <<Alfonso. Che piacere, due A iniziali e quasi uguali>>. <<Tutti e due un po’ spagnoli. Don Alfonso se mi permettete vorrei offrirvi qualcosa da parte mia ed anche da parte della signora di cui mi avete raccontato.>>. <<Perché mai?>>. <<Diciamo che il bottone vi ha portato bene. Poi siamo sotto lo sguardo della Madonna>>. Alza la testa, ed accenna un segno di croce. Raccolgo qualcosa dal portamonete e glie lo porgo. <<Cosicché voi dite che il bottone porta bene?>>. <<Non sono superstizioso, dico solo che dovete andare via contento, diciamo “bottone benedetto”>>. <<Allora mi dovete permettere di ricambiare>>. Sono spiazzato per un attimo. <<Vi faccio dono del bottone benedetto. Così anche io benedico voi>>. Vorrei ricusare, ma non c’è ragione. <<E no dovete accettare. Voi avete detto che il bottone è una benedizione? Ed allora per ringraziarvi vi voglio benedire e vi regalo il bottone>>. Sorridiamo insieme. Forse anche la signora seduta,  che mi pare ora stia guardando verso il cielo. Ci salutiamo come si usa oggi, incrociando gli avambracci e ringraziandoci a vicenda. Guardo ancora la donna seduta. Mentre don Alfonso si allontana mi ricorda:<<Sorridere sempre. Nessuna avversità deve cancellare il sorriso>>. Nel palmo ho il bottone di don Alfonso, che racchiude la storia di quel momento d’autunno ai piedi dell’Immacolata.

domenica 25 ottobre 2020

La pioggia di ottobre


Ottobre è il mese dell’autunno, da sempre. Possono le temperature salire, ma il sole si allontana dalla terra, la sua luce diventa più tenue, i suoi bagliori più delicati, l’atmosfera invita ad uno sguardo intimo. Piove, in modo sottile, persistente, umido appena per sollecitare il corpo a quel tepore che lo allieta, che lo accarezza. L’ombrello protegge, almeno in parte, altre gocce che rimbalzano sull’asfalto intrisano le stoffe degli abiti, come se volessero dipingerli di se. Mi volto all’indietro, un moto lieve ed imprevisto, forse il picchiettio alle spalle, forse il fluido sulla schiena di tepore e brivido. Un volto incorniciato di biondo e due ampi orecchini mi sorride. Preso di sorpresa dall’incontro inatteso di uno sguardo, o chissà solo effetto di luce che modella le forme. Più in là un bimbo saltella divertito nell’accenno di pozzanghera sotto i suoi piedi, fermamente tenuto dalla paziente mano di mamma, impegnata con l’altra a tenere l’ombrello. Una coppia di fidanzati profitta dello spazio in cui devo tenersi stretti, per scambiarsi affetto con le labbra. Mi viene dal mio pudore distogliere lo sguardo da tanta intimità, ruotando e reclinando il capo come richiede il movimento. Il corpo nei suoi gesti produce leggere scariche elettriche che nella testa si trasformano in immagini. I ricordi sono scene tanto concrete che si rivivono come presenti, ogni volta. Bimbi divertiti corrono lungo il bagnasciuga, non distinguendo l’acqua del cielo da quella del mare che gli sta davanti, entrambe arrivano dall’immenso, dal blu, dallo spazio in cui espandere ogni fantasia. Ragazzi giocano a pallone sotto la pioggia, come i grandi campioni. Un anziano signore, di anni in cui si era nonni di tutti, impartisce la giusta lezione che i grandi campioni poi hanno saune e massaggiatori, forse è meglio trovare ricovero. Come quel giorno con la fiamma del cuore della giovinezza, correndo divertiti nell’atrio di un portone aperto. Affetti scambiati, sguardi, risate. Le stesse al concerto, per il temporale improvviso. Non valeva la pena correre, non c’erano portoni, solo aprire le braccia e lasciare la pioggia scivolare, anche la bocca si apre per un’accoglienza totale, ed il corpo danza a girotondo. L’allegria mi desta al presente. Ho lo sguardo rivolto in avanti. Il passo si fa più rapido, come a recuperare il tempo perduto. La mente non ha più le scene dei suoi ricordi, ma le sensazioni condiscono di se il flusso del sangue. La pioggia d’autunno termina, l’ombrello si richiude. Nello scuoterlo il polso si ferma. Gli occhi si intrattengono ancora su una scena, una terrazza bagnata dalla pioggia appena terminata, una tazza tra le mani, il paesaggio ammantato d’acqua argentea, nel cuore i progetti di vita come cristalli di sale, che si scioglieranno nel tempo. La clip chiude l’ombrello, il cielo resta tinto di grigio e l’asfalto restituisce le vibrazioni dei passi, tornati frenetici e decisi. Ha smesso di piovere. 

                                                                                             Arturo Lania

mercoledì 21 ottobre 2020

La luce del borgo

 

La luce del borgo

Tanto tempo fa, lo smartphone ancora non esisteva, il mio cellulare valeva nove euro e di certo non faceva foto, attraversavo spesso un certo borgo cittadino. Al meriggio si diffondeva la luce del tramonto che dorava di se gli edifici che parevano bearsi in quell’incanto. Una particolare combinazione di mescolanza con la luce dei banchi preparati per le prossime feste natalizie, che diffondeva intorno un’aurea serena e pacifica. Un incanto, che volevo trattenere. Con la macchinetta fotografica un giorno mi posizionai, in attesa della magica luce. Un’inquadratura incantevole, movimento di popolo nel “sogno dorato” tante volte dipinto da Luca Giordano. Uno scatto, poi un altro e un altro ancora. Assorto quasi, in quanto cercavo di catturare. Non mi accorsi che in fondo, di lato, fuori inquadratura un gruppetto di uomini, dal fare guardingo, a loro volta avevano inquadrato me. Tra loro un tipo  alto, vestito di nero, con uno spolverino e i capelli tenuti a coda di cavallo, si diresse deciso nella mia direzione. Aveva il fare del gregario che investito di un compito si preparava ad adempierlo con fare autoritario. Lo seguivano severi gli altri compari. Erano già a pochi passi da me quando mi accorsi del gruppetto e mi resi conto che il loro movimento mi riguardava. Ancora con gli occhi della mente assorto in quella luce dorata, con quelli del corpo fissai il tale con il nero spolverino e la coda di cavallo. << Questa è la nostra zona, tu qua non puoi fare fotografie!>>. Tutte insieme quelle parole erano così fuori contesto che faticai a dargli un’allocazione mentale per una razionale comprensione. L’espressione di stupore probabilmente accese di più il tono dell’uomo alto, vestito in nero, che mi intimò: <<Cancella subito! O me la prendo!>>. Immagino intendesse la macchinetta fotografica. Ancora troppo assorto, in stato meditativo, non si attivarono i ricettori e non partì la dose di adrenalina che genera paura. Al contrario, circolava sicuramente nell’uomo con la coda di cavallo. Fui quasi automatico porgere la macchinetta e aiutarlo a cancellare. Dovette sembrar loro molto facile, oppure da buoni professionisti della vigilanza non sentirono il bisogno di aggiungere altro e se andarono, con fare sicuro e duro.

Quando raccontai dell’accaduto a certi amici, si misero a ridere. Pare che pochi giorni prima una troupe televisiva aveva inquadrato la stessa scena, ma con intenzioni diverse. Anziché “il sogno dorato” di Luca Giordano  documentarono il prodotto dei sogni venduto nella zona, la droga. Quei tali erano quindi sentinelle dello spaccio di droga, che probabilmente avevano già dovuto rispondere di essersi fatti sfuggire la troupe. O forse ne tutelavano l’esclusiva, chissà?

La foto era rimasta nella piccola macchina fotografica. Il cestino che conservava i file cancellati prima di eliminarli definitivamente fece da scrigno alle mie foto. Quella scena così beata, l’atmosfera serena, l’aria aurea, le conservo ancora negli occhi. L’intreccio di quell’esperienza con un accadimento marginale, l’ha trasformata in un raccontino. Si usa poi fare una qualche considerazione. Che a dire il vero provo e riprovo, ma nessuna mi pare adeguata. Mi è venuto in mente il linguaggio: chi parla in quel modo , se viene da levante o da ponente è di quella pasta. Si potrebbe metterla anche sullo psicologico. O sui confronti di stili di vita. Persino formulare una conclusione tra luce e il buio. Ma nessuna di queste considerazioni mi pare sia adeguata ad una conclusione. Una constatazione forse sì. Ho vissuto un’emozione da ricordare. Per giorni avevo contemplato quella luce. La foto l’avevo preparata. Avevo atteso l’occasione di andare, l’ora e il momento culminante dello spostamento della luce del tramonto. Ho guardato i vari scatti molte volte dopo. I social non erano ancora un sistema di condivisione che utilizzavo. Ripeto la scena mi è rimasta nel cuore. Una scena nella quale quel gruppetto non c’è. Fuori dal margine dell’inquadratura non furono mai ripresi. Volevo raccogliere la luce e su di loro, pur stando nella stessa area, la luce non era mai scesa.  

                                                        Arturo Lania

martedì 14 luglio 2020


La mia mamma Emma si è addormenta.


La mia mamma Emma si è addormenta. Si è svegliata tra le braccia di Dio, che l’ha coccolata. Deve esserle particolarmente piaciuta per come l’ha fatta. Mite, sorridente, solida. In conclusione della sua vita le ha dato due malattie di quelle che fanno tremare i polsi solo a sentirle nominare. Eppure quegli anni sono un lungo racconto di momenti belli. Anche per le battute che Emma, mia madre, faceva senza nemmeno pensarci. Una su tutte. Quando la reggevo per fare degli spostamenti le intimavo: << _Mamma fai attenzione! Rischi di cadere!_ >>. Speravo di intimorirla e renderla più disponibile alle mie manovre, anziché assoggettarmi ai suoi ritmi. Mi rispondeva con la sua leggerezza: << _Figlio mio bello, se cado a terra, a terra mi trovi_ >>. Deve essere piaciuta la riuscita della sua creatura al Nostro Creatore. Solida, semplice, pronta a prendersi “il rischio di vivere”. Di sicuro le deve essere piaciuta la sua fede. << _Certo che ho fiducia in Dio! Mi ha sempre aiutata. Se non mi avesse data la forza di lavorare come avrei fatto a farcela_ >>. Ha ripetuto questa frase per tutta la vita. “Beati voi poveri, un giorno gioirete”. Mamma Emma era davvero povera. Poi il lavoro, piano, piano, anno dopo anno, tutta la vita. Una buona vita. Certo a Dio è piaciuta la sua creatura, anche per quel cuore di benedizione. << _Benedico tutti quelli che hanno fatto del bene a me e alla mia famiglia_ >>. E i nemici? << _Ma se io non voglio il male di nessuno, perché qualcuno dovrebbe volere il male mio?!_ >>. Ragionamento stringente e senza possibilità di replica. D’altronde la semplicità e il sorriso non si offrono alla replica, ma ispirano la contemplazione, silenziosa. Mamma Emma in cielo è tra le braccia di quel Padre nei Cieli che è venuta a prenderla dolcemente nel sonno. Posso pensare che stia continuando a pregare. Certo posso testimoniare le preghiere che ha fatto in questi anni. Ogni giorno, pioggia o sole, vento o bonaccia, alle sei del pomeriggio in punto abbiamo pregato il Rosario. Poi, in conclusione, si metteva assorta e parlava con Dio, direttamente, come chi può, come chi è gradito. E benediceva. Benediceva tutti quelli che l’hanno voluta bene. Che non erano pochi, lo si è visto nell’ultimo giorno. A tutti voi che le avete voluto bene, che le avete fatto del bene, che l’avete aiutata a vivere bene, ogni benedizione. Che la Vergine Maria continui la preghiera che le consegnava ogni giorno la mia mamma.
<< _Emma, figlia mia, ben tornata a casa_ >>. Così mi immagino che Colui che l’ha presa dolcemente tra le braccia le abbia detto. Per coccolarla ancora.
Ciao Mammina. Mi manchi.
                                                                              Arturo.

venerdì 31 gennaio 2020

Dorothy Day


Dorothy Day

Se mi avessero chiesto: <<Conosci Dorothy Day?>>, avrei risposto: <<Attivista cattolica americana degli anni Trenta>>. Guido Mocellin che scrive per Avvenire, svolge un lavoro, -chediolobenedica-, in quel modo sartoriale in cui informazione, cultura e formazione vengono confezionate insieme con un esito mirabile. L’esito di portare a “conoscere” oltre, a cercare. Il tempo è quello che è, ma come sempre chi vuole fa. Attesa alla fermata, dal barbiere, mentre cammino. Così ho letto diversi siti per saperne di più. Non sto divangando, il vero tema che mi sta in testa è partire per andare oltre, per cercare oltre quello che si vede in prossimità. Mi scrivo proprio oggi un’amica, “la Chiesa ormai sta perdendo quota e di molto”. La mia amica è una scrittrice e poeta. Le faccio la domanda: <<Conosci Dorothy Day?>>. Le suggerisco un blog che ho selezionato tra diversi. Mocellin suggerisce Catholic News Service, personalmente sono passato per The Washington Post, altri siti americani, il nostro Osservatore Romano e infine Prospettiva Persona che in se è un’altra scoperta. Così ho tra le mani elementi che mi parlano di una storia molto più grande dell’esperienza cristiana, che non ha i suoi confini in una parrocchia o in una chiesa. Di una storia molto più grande di un cristianesimo attivo e operante al fianco dell’Essere Umano per il suo sviluppo, la sua crescita, la sua realizzazione. Di una storia molto più grande di un’esperienza cristiana che non si rassegna “alla cultura dello scarto”. Che sa benissimo che se un povero ha fame non puoi “insegnargli a pescare”, lo devi prima accudire, accompagnare, riscattare. Che sa che tutti ce la possono fare, ma che nel sistema che viviamo non tutti c’è la possono fare, eppure questo esperienza cristiana non vuole in nessuno modo smettere di occuparsi degli ultimi. Un’esperienza di santità, certo, è il nostro linguaggio di credenti.  Ma è un’esperienza che chiarisce bene i termini di questa prossimità a Dio e all’uomo. Dorothy Day abortisce, ha una vita amorosa di relazioni con uomini divorziati, convive. Fa esperienze politiche nel femminismo americano e nel socialismo. La sua è una vita dell’età contemporanea. Quando arriva all’incontro col Gesù che svela l’amore del Padre, <<tra l’uomo e Dio ho scelto Dio>> scriverà in un suo testo. Una volta ad un amico storico per laurea dissi proprio questa frase. La pensai al momento nell’ambito di una discussione sullo sviluppo del cammino della Chiesa. Mi venne in mente di commentare proprio così: <<Sono aperto ai cambiamenti, ma se dovrò scegliere tra Dio e l’uomo, sceglierò Dio>>. Una convinzione che mi è rimasta in mente. A quell’amico storico ho cercato anche di fargli leggere Thomas Merton e Charles De Focauld, Madre Teresa e Thérèse Martin,   Jean Vanier e Romano Guardini. Uomini e donne di esperienza cristiana di una storia più grande, che ritrovo tutti nella storia personale di Dorothy. Uomini e donne di questa esperienza di Cristo a cui hanno corrisposto prima di tutto con la parola e che lasciano in eredità all’Uomo la loro parola. Ogni vero cammino ha inizio con la parola, si orienta con la parola, comprende il viaggio con la parola.  Se ho realizzato qualche cosa nella mia vita, è perché non mi sono, mai, vergognata di parlare di Dio. Per Doroty Day, serva di Dio, hanno aperto la causa di beatificazione. Non sappiamo come finirà. Sappiamo dalla penna di Guido Mocellin su Avvenire di venerdì 31 gennaio 20202 che in Usa: <<C'è un film sulla "storia di Dorothy Day" (1897-1980), intitolato "La rivoluzione del cuore", che, prima ancora di andare in onda sul radiotelevisivo PBS, è diventato uno dei dvd più venduti su Amazon, nella categoria "documentari">>. Nel mondo tanti uomini e donne stanno cercando di realizzare il sogno di un mondo migliore. Dovunque c’è Cristo questo lavoro si fa.