lunedì 22 gennaio 2024

Quando i bagni pubblici diventano filma

A Napoli c'è che uno si va a vedere il film di Wim Wenders. Che bello è bello. Però fa pure figura. Poi lo sa la rete e la figura finisce nel bagno, pubblico. Si perché, la Rete, a questo punto con la maiuscola, ti propone l'articolo di Domus che rivela che Wenders è stato ingaggiato per promuovere i nuovi bagni pubblici di Tokyo. Così ne ha fatto un film. E mentre lo spettatore segue Hirayama lungo il ripetersi del suo quotidiano, vede una serie di bagni pubblici provando ammirazione. Domus li elenca e li descrive. Alla fine porti via con te la ricerca di Hirayama di una vita dello spirito che si sublima nell'esperienza del Komorebi, l'attimo unico della luce che brilla tra le foglie. I piccoli personaggi che incontra nel quotidiano. Provi pure a riflettere un po' se la vita di Hirayama abbia un senso. 3 poi ti resta nella mente quel cataogo di bagni pubblici tecnologici, i vetri sono trasparenti e si fanno opachi quamdo uno è dentro. Insomma Wim Wenders ha fatto con Perfect Days una pubblicità di bagni che ti fa riflettere sulla semplicità della vita e sui tecnologico bagni pubblici giapponesi. E forse forse questa è la vera metofora di questo film. O forse no.

👋😁


lunedì 8 gennaio 2024

 8 gennaio 2024

La suora, il pakistano, la turista e gli auguri.

Questo anno sono 24 che partecipo alla devozione al Sabato Privilegiato. Una devozione mariana e napoletana, che nel 2026 compirà 200 anni. Per me iniziò il sabato primo gennaio del 2000 e nemmeno sospettavo che stavo per iniziarla. Anche questa volta sono andato di buon mattino, abbastanza di corsa, per arrivare in tempo alla seconda messa delle 7:30. Molti sacerdoti partecipano con il popolo a questa devozione, alternandosi all’altare del Gesù Vecchio. Ci sono tempi da rispettare, per il gran numero di partecipanti, la celebrazione si svolge sempre entro trenta minuti. Poi c’è il pellegrinaggio alla statua, posta a conclusione della doppia rampa di scale, sopra l’altare. Può occorre un’altra mezz’ora, in coda con gli altri partecipanti. Poi uno sguardo agli oggetti contenuti nella chiesa, il presepe a grandezza naturale fatto scolpire da don Placido Baccher, che promosse la devozione mariana. In poco più di un’ora sono fuori, come consuetudine. Ma da dopo il Covid qualcosa è cambiato, le percezioni sono diverse, in particolare quest’anno mi sembra di aver compiuto una partecipazione formale e non amorevole. Come si dice nel gergo cristiano, “non mi ha parlato”. Forse. Gli altri due amici sono già andati via, con quello rimasto decidiamo di fare colazione insieme, nella piazza di un altro Santo. D’altronde tutte le piazze del Centro Storico Napoletano sono niente altro che dei sagrati. Davanti alla chiesa dei Santi Marco e Andrea, ormai affidata agli ortodossi, incrocio una suorina che conosco, forse ha ottanta anni, forse novanta e forse cento. Una figura del tutto letteraria, piccolina, veloce, sorridente, sempre in giro, ovunque ci sia una liturgia devozionale. “Troppa roba”, mi fa indicandomi gli arredi della chiesetta ortodossa. Embè, faccio io, comunque hanno una spiritualità radicale. Non so perché fa una virata tematica, “Questo mondo è impazzito”. Embè, ripeto io, incautamente, come se non conoscessi la sua logorroicità, è pur sempre una creazione di Dio. Cito le parole di un libro spirituale appena finito. “Pazzi e cattivi. Guerre e distruzione, questo stanno facendo”. Quando comincio a sentire parlare di astratti soggetti che governano il mondo, mi irrito sempre, ma la suora che ho davanti non mi permette cambi di umore è troppo simpatica, le sue parole schioccano come quelle di una bimba. Punto a tagliare corto, baciandola in fronte, piccolina com’è mi risulta facile. Su questo mondo Gesù ha piantato la sua croce, chioso citando ancora il libro. Lei mi afferra il volto con due manine piene di energia vitale  e mi piega versa di lei, mi restituisce il bacio schioccandolo sulle guance e subito ribadisce: “Allora sei ceco! Non vedi tutto il male che c’è. Assassini, divorzi, aborti. Stanno togliendo Gesù da per tutto. Scuole, ospedali, chiese. Non c’è più la fede”. Dice veloce, a raffica, unendo tutte le parole come fossero una sola. Mi stringe le mani con le sue. La discussione sul mondo corrotto e senza speranza, con una suora mite e allegra proprio non la posso sostenere, provo a baciarle le mani e sfuggire la presa. Lei le ritrae lesta e con abilità da lottatrice mi afferra il bavero: “Ci dobbiamo svegliare, annunciare la fede, altrimenti non ci sarà più niente”. Per un attimo ho la sensazione che mi voglia scalare, come fossi un piccolo poggio. La vedo come quei bimbi che fermamente sostengono le proprie posizioni, ed usano il corpo per affermarle. Ancora solenne e citazionista rispondo, la Croce ha già vinto, abbiamo già vinto. Lei appare delusa, e mi lascia un istante, abbastanza per consentirmi di allontanarmi salutandola sorridente. Anche lei mi sorride, con la sua solita freschezza di sorriso, ma con lo sguardo di rimprovero. Mi resta dentro tutta la conversazione, le sue parole, le mie citazioni. E tutta quell’energia di volontà che è passata tra noi. E lo sguardo gentile e deluso, per non essere stata compresa.

Dopo colazione mi separo dal mio amico. Questo primo sabato dopo il trenta dicembre è caduto il 6 gennaio, ho ancora dei pensieri da comprare. In un’altra piazza, dedicata all’italiano per eccellenza, Dante Alighieri c’è un mercato allestito per le Festività. Un venditore pakistano ha degli ottimi pashmina, con bei colori. Ne prendo un paio. Iniziamo a parlare. Il suo ultimo giorno di mercato, poi torna in Pakistan. Un commerciante di una volta, penso. Gira il mondo per le fiere e poi ritorna a casa sua. Penso a Marco Polo. Si finisce per parlare di quest’ultima Festività, la Manifestazione. La chiamo la Manifestazione dell’Amore, per renderla, come dire, trasversale. Lui musulmano rilancia, “Si Dio è Amore. Nel Corano è scritto prima di tutto rispetta l’altro. Non c’è guerra nel Corano. Rispetta la persona è scritto”. Per me è la mattina delle citazioni, ho letto che il Corano dice, se vuoi entrare in Paradiso, ama tuo fratello. Mi guarda diritto negli occhi, con una vena di stanchezza di tanti giorni di lavoro all’aperto. “Si. Prima la persona. Muslim è pace no guerra. La religione fa guerra. Ma il Corano è per l’uomo non per la religione. Prima viene l’uomo, poi la religione”. Oh, penso tra me, mi pare davvero che stiamo parlando del Vangelo. “Muslim non uccide. Occidente, Americani uccidono”. E te pareva, penso tra me, poteva andare liscio. Vogliamo parlare dei Martiri di Otranto. Ma no, non voglio trasformare questa conversazione in uno scontro. “Nel Corano è scritto prima di tutto rispetta la persona. Se rispettiamo la persona tutti vivremo in pace”. Bene, è proprio così. “Buona giornata fratello”. Come si dice in arabo che Dio sia con te? Lui me lo dice e io lo ripeto su di lui. Lui lo ripete su di me, guardandomi con quegli occhi pieni di fatica e di fede.

Dovrei fare altre commissioni, ma sulla mia strada c’è una mostra che ancora non ho visto. La Pittura al tempo di Napoleone, i Colori del Golfo. Il protagonista è Joseph Rebell, esposto insieme ad altri pittori. Ne esco con una specie di illuminazione. Non potevano davvero continuare a dipingere così, a raccontare il mondo in quel modo. Capisco perché è arrivata la rivoluzione della pittura e delle altri arti visive. Il mondo non ce la faceva proprio più ad essere raccontato in quei modelli. L’arte ne doveva tenere per forza conto. Doveva cambiare il linguaggio del suo sguardo.

Ci penso ancora la sera mentre i Cantori di Posillipo cantano le arie più famose della canzone classica napoletana, che da quell’epoca antica ancora sopravvive.

Al mattino seguente sono alla messa della Domenica. La Basilica che mi custodisce nei sacramenti è davvero antica, adornata di storia. Andrebbe visitata fuori dall’orario delle messe. Ma i turisti hanno idee diverse. Passeggiano nelle navate laterali comunque. D’altronde, per onorare il vero, anticamente accadeva così, si passeggiava nelle ampie navate mentre si celebrava. Ed anche oggi, nelle solennissime messe ortodosse, ai margini ci sono banchetti di oggetti dove si comprano oggetti durante la liturgia, alcuni in essa saranno persino usati. Ma quando una signora spudoratamente apre il cancello di una cappella e vi entra dentro, comincio a friggere sulla sedia. Dopo un poco, mentre lei ancora è intenta a fare il “servizio fotografico”, di un ambiente tra l’altro scuro, mi sento in dovere di fare qualcosa. Ovviamente dopo c’è chi mi dirà, hai fatto bene e chi mi dirà, quante arie. Ma succede così anche nelle famiglie, cellule primarie della società. Tra fratelli, i figli con i genitori. Succede. Quello che però accade a me, quando con passo marziale entro nella cappella è incontrare lo sguardo dell’anziana turista. Ha un occhio spento. Mi ricorda una pellegrina che ho conosciuto pochi giorni prima, ipovedente. Ha l’aria un poco confusa dalla mia domanda, hai fatto tutte le foto? Mentre le indico l’uscita dalla cappella. Ma la sua aria semplice non mi permette irritazione. Lo sguardo infantile non offre appigli a conflitti. Esce e dice: “Certo che è bella questa chiesa”. Si, le confermo, lo è davvero.

Il sacerdote sta completando la sua omelia. “Ci vuole uno sguardo nuovo per vedere il Dio che Gesù vuole mostrare al mondo. Lui che si manifesta mettendosi in fila insieme agli altri per farsi battezzare.” Penso alla fila per salire a porgere omaggio alla statuina fatta scolpire da don Placido. Penso alle cose belle delle ultime settimane. “Prima di chiedere grazie a Dio, comincia a chiederti cosa vuoi tu? Chi vuoi essere?” continua l’omelia. Penso agli sguardi. Dei pellegrini con cui sono andato a Roma per far visita all’altare dove San Gaetano ebbe la visione del Presepe. Penso allo sguardo di chi pur anziano, persino ipovedente, si è messo in marcia per un’ora per raggiungere la meta. Penso agli sguardi degli amici che ho incontrato nei giorni delle festività. Alcuni allegri, altri tristi. Penso alla suora, al pakistano, alla turista.  Penso agli auguri di un’amica per il nuovo anno. Mi ha regalato dei torroncini, con un biglietto:

<<Non perché ti rompa i denti, J, ma affinché quando e se verrà un giorno tosto tu ti ricordi che hai denti forti per superarlo. Nel fondo ogni durezza ha del buono, se “addentata”, arrivando al cuore scoprirai addirittura del miele! Questo il mio augurio per il Nuovo Anno: che tu arrivando al cuore al cuore di ogni cosa e di ogni persona, lo trovi più ricco di ogni bene e bontà! Quindi, che sia un anno da “addentare” si, ma carico di bene, che ti porti al cuore delle cose e delle persone dove c’è tutto il bello>>.

Il biglietto è decorato con tanti bei fiorellini colorati.

Quando la messa finisce, il trio messicano dei novizi della famiglia religiosa canta in spagnolo Feliz Navidad, Alleluja, El camino de Belen, Echa pa’aca con Cristo, Rendid a Yaveh. C’è tanta allegria, e balliamo.

Uno sguardo nuovo, dei buoni denti, tanta allegria, amici. Che il Nuovo Anno sia un cammino. Di certo è così che è iniziato. Incontrerò ancora la suora, il pakistano è in viaggio per il suo paese, e altri turisti verranno in basilica. E gli auguri li ho imparati a memoria. Il Nuovo Anno è iniziato. Bene. Auguri a tutti.

     Arturo Lanìa

 

giovedì 28 dicembre 2023

 Natale 2023

 

Il Regalo di Natale

Il regalo più bello che si possa fare è quello che resta nel cuore ❤️.  Sopratutto a Natale. Un pensiero, una storia, delle parole possono restare per sempre, più di ogni altra cosa.

Qui lascio il mio regalo a chiunque si fermerá a leggere.

In questo tempo speciale si fanno tanti auguri che si fanno viaggiare con la messaggistica social. Ma telefonarsi si usa ancora. Chiamo una mia amica, con un'amicizia che risale al secolo scorso dello scorso millennio. Mi racconta che sta per partire per far visita alla madre. Formula precipua del Natale riunire le famiglie, anche quelle le cui parti sono sparse in luoghi geografici diversi. Il lavoro chiama tanti a trovare la propria strada lontano dalla propria terra natale. E la salute. Non tutte le malattie le puoi curare la dove si nasce e dove sono i tuoi affetti. La mamma della mia amica si trova in una residenza sanitaria e vi resterà fino al suo ultimo giorno, la sua condizione è l'immobilità. Vede e sente Come condizione biologica, la facoltà della comprensione non l'ha più. Almeno quella comune. Quella che usiamo tutti ferialmente. Esistono però facoltà speciali, come lo sono i giorni di festa, come lo è il Natale. Che è fatto di scambio d'Amore e di segni come i regali. Anche alla sua mamma la mia amica porta un regalo. Un carillon. Antoine Favre era un orologio di Ginevra nel 1796, pensò di riprodurre in una scatola musicale portatile le strutture di campane azionate con meccanismi automatizzati. Ed ideò un oggetto magico. La satie, musica per carillon, accompagna i migliori ricordi di infanzia, di serenità di tanti che hanno avuto questo oggetto da piccoli. La scatola sonora è decorata da un paesaggio di Natale. Mentre la mia amica mi racconta la speranza che in qualche modo la magia del magico oggetto possa raggiungere l'intimo del cuore della mamma, nel mio spirito vedo la scena. Le mani commosse della figlia che ripongono il carillon sul tavolino accanto al letto. Affidandosi a quelle facoltà ancora attive di vista e ascolto carica la corda della piccola scatola musicale. Il minuto paesaggio natalizio si anima e le note della satie riverberano sulle lacrime intime del cuore attonito. Non so mamma se puoi sentire veramente, ma lo spero tanto, vorrei farti sapere quanto ti amo. Forse facoltà speciali, che non sappiamo vedere, ora sono al lavoro, per accogliere il segno che ti ho portata per parlarti del legame che non si potrai mai sciogliere tra noi. In questa immagine trovo le parole per darle conforto nel momento che come una nube invernale un dubbio si frappone tra la speranza e il cuore. Teme che non servirà a nulla, forse non è nemmeno più in grado di riconoscerla. Si che può, il suo spirito può, la sua coscienza può. E quello che stai per fare sarà un gesto, un segno amorevole di figlia che resterà per l’eternità. Quando finiamo di parlare di questo, le faccio i migliori auguri e le affido un bacio e una carezza da portare alla madre da parte mia. Mi rivela che tanti amici le hanno chiesto questo. Ed ecco che il suo racconto regala un’altra immagine. Le sue mani che stringono la donna nel letto portano dentro il calore di tante carezze, dei baci di molti amici. Ed in queste scene vedo il senso profondo e vero del Natale. La vicinanza degli uni con gli altri, la vicinanza a chi soffre. La vicinanza nello spirito che può superare ogni barriera. Sempre, ogni Natale ricorderò questo racconto che ho accolto come un dono imprevisto. Tra i rumori del mondo vi sono tante magnifiche melodie.

Buon Natale a tutti e chiunque.

Un sorriso.

Arturo Lania

 

lunedì 31 ottobre 2022

Destra e sinistra son tutti uguali

 Destra e Sinistra, son tutti uguali.

Mi occorre leggere. Ho del tempo. Certo. Voluto, per leggere. Sono per strada e mi fermo al “mio posto” dove so che seduto, in verandina, con teiera e tazza in porcellana, un tè lo pagherò due euro. Gli aspetti belli di questa città nel golfo mitologico che ancora oggi fa echeggiare il nome di Parthenope. Chiedo la mia bevanda e mentre vado ad accomodarmi un altro avventore mi canzona: “Frate’, ma nun è meglio ‘nu spritz, che te arripiglia”. Sorrido, anche sto fatto che “i fratelli” intriganti li trovi alla mescita di un baretto fa parte degli aspetti belli delle città. Soprattutto nei suoi quartieri antichi e popolari. Al tavolo, mi godo il tè mentre leggo e prendo appunti. Un altro signore arriva svelto, “Un aperitivo a volo a  volo”. Meno esigente di me. Un bicchiere di plastica, cannuccia, ghiaccio e qualcosa dentro di rosso, seduto giusto il tempo di due o tre sorsi. Contento va via. Mi fermo con lo sguardo in aria, pensoso sulle parole appena lette nel mio e-book, che cerco di memorizzare. Si ferma sulla veranda e ride divertito, un tipo bassetto, di mezza età, sorridente, allegro, divertito. “Dovete far la faccia gialla per il fegato che si è fatto tanto”. Fa un gesto con le mani per simulare un rigonfiamento. Ride di gusto, interloquendo con il gestore, la moglie e un paio di amici che sono con loro. Penso si tratti di calcio. Una passione che anima le discussioni da sempre e il divertimento di sfottere gli sconfitti è sempre gustoso. “Avete perso. Rosicate. Sempre anti, sempre anti. Mo’ avete avuto la lezione”. Qualcosa non torna, frasi che non riesco a collocare. In genere lo sfottò è tra i napoletani che tifano Napoli e quelli, numerosi, che parteggiano per la Juve. Ma “anti” a chi si riferisce. “Io milito da giovane. All’Università quante ne ho prese”. Sogghigna compiaciuto, accompagnandosi con ampi gesti delle mani. “Ma quante ne ho date”. Ormai è gasato, i ricordi di gioventù lo animano prepotentemente, insieme alla soddisfazione di un risultato agognato da una vita. “Ho militato nella Destra Sociale. Poi per un po’ di anni ho fatto il cattivo…” Ghigna, sempre più divertito e si guarda intorno. Per un attimo abbassa un poco la voce. “Ordine Nuovo… Questa gente qua…Ma poi ho lasciato”  La soddisfazione e il divertimento sono coinvolgenti, vibra intorno a se stesso fino a che un’onda arriva a me e mi scappa un sorriso. Ormai è protagonista di questa piccola scena, i suoi amici, io seduto al tavolino, nel sangue circolano giocosi i ricordi di gioventù. <<Sono stato paracadutista della Folgore. Uhà! Sono fiero! L’ho detto a mia moglie: quando muoio, sulla bara mi deve mettere la bandiera della Folgore. E il tricolore. Il tricolore della Repubblica di Salò!>> Il petto è gonfio al massimo, così la pancia che sul corpo basso fa il suo effetto botte. Mi accorgo che è stempiato, pochi capelli, porta gli occhiali e ha le rughe. Ha molti anni, più di me. Di un altro tempo, prima del mio. L’onda che mi ha fatto sorridere ha terminato il suo effetto. Penso “ai giovani che sbagliarono parte”. Succede. Ma chi lo ha stabilito che quei giovani la pensino così. Pacificazione è il sogno dei profeti e di quelli del poi. Ma di quelli del mentre il ricordo fa bollire il sangue di fierezza, di ardore. Di rivendicazione. <<Mo’ l’avete preso in quel posto. Che povera femmena quella –Sernacchiana->> Ne storpia il nome senza intenzione, proprio non se lo ricorda come si chiama. Si capisce che gli sembra solo un nome buffo, che si presta ad essere citato con disprezzo. <<Come è che ha detto?! Le donne un passo indietro?... Come ha detto la Meloni?!...>> Qui inciampica con le parole, sembra in imbarazzo, pare faccia fatica a dirlo, mima il gesto che lo stesso “signor Presidente del Consiglio” ha espresso mentre le pronunciava: <<Le sembra che stia un passo dietro agli uomini?>>. Ormai è sodisfatto, ed a me pare stanco, forse l’eccesso di emozione. <<Questa è la Democrazia. Mo’ v’avite sta’ sulo zitte. Mo’ a cummanname nuje, e va facimme abberè>>. C’è una pausa, anche nella mia testa. Sto mettendo a fuoco tutte le parole, il senso, quello che mi appiaono, la prospettiva di pensiero che offrono. <<Va bene, ora vado via, statemi bene>>. Ci ho pensato dopo, non ha fatto nessun saluto romano. Ci sono cose che appartengono più al folclore che allo spirito delle cose. Perché la Politica è Spirito, per questo ha il potere enorme di muovere la Storia.  E nella sostanza rende le persone diverse. A sinistra nessuno penserebbe “ora fate silenzio”? La democrazia è continua composizione del conflitto. Chiunque ne capisce, sa che le elezioni non si perdono e non si vincono, quelle espressioni sono solo propaganda. Una opposizione “in silenzio” è espressione di un paese che opprime una parte che lo compone. L’idea di governare in Democrazia non prevede “lezioni” alle opposizioni. Non c’è dubbio, le differenze ci sono. Soprattutto per quella veste di comunismo che come un tutta per matti da legare si vuole far indossare a chi pensa il mondo da sinistra. Per questo non commetto l’errore identico di mettere il fez in testa a tutti quelli che ragionano a destra. Quante volte ho ragionato con chi militava nel MSI, con distinzione nella visone, ma con lo stesso ardore e devozione per il sociale, per la gente, per il consorzio comunitario di una città, di un paese, di un popolo. Non c’è dubbio che l’onorevole signor Presidente del Consiglio dovrà ribadire agli ardenti di un’epoca sconfitta dalla Storia e dai valori della Democrazia, che solo a quest’ultima si può ispirare per governare il paese reale. Ed alla Costituzione che da quella  vittoria è stata redatta. I gesti politici che compirà per mostrare simbolicamente la differenza, saranno necessari a dimostrare il cambio di spartito. Ma ci saranno grandi temi dove la visione del futuro di chi governa dovrà trattare fino in fondo con i rappresentanti dei quella parte del paese che hanno un’altra prospettiva, un’altra visione. Questa è la via maestra per restare nella traiettoria della Democrazia. Al di fuori di essa di essa vi sono derive intollerabili, curve paraboliche verso fantasmi del passato che hanno prodotto solo orrore. Chissà cosa farà veramente Giorgia Meloni? Chissà se è veramente “un passo avanti agli uomini” per governarli, o è solo un paravento per un destra degli affari, del potere, dell’assoggettamento. Ricordo il ventennio. Non quello della prima parte del Novecento. Quello della fine, quello dei governi Berlusconi. Quanta tristezza, quanti guasti, quanti amari frutti.

Non ho più voglia di leggere, i miei pensieri mi hanno portato via energie. Il desiderio di fare e la frustrazione di non sapere più cosa, mi deprime. La consapevolezza che la gente è stretta nella morsa delle bollette e non ha il cuore libero, mi sottopone una lucida e diafana evidenza. Mentre la Storia ancora cammina, non vedo più lo Spirito della Politica che l’ha animata, ridotto come è ad una larva poltergheist, rumorosa e inconsistente. Che fa più danni al presente che costruzione di futuro. “Spengo” il mio libro, un gesto della modernità e chiudo il mio taccuino per gli appunti, un gesto del passato. Pago il prezzo popolare del mio thè, mi avvio per la strada popolosa del quartiere antico. Tra banchetti di pesce, di mozzarelle, vestiari e cianfrusaglie si confondono i miei pensieri, mescolandosi ai rumori. Siamo nel futuro… ed ancora non ci appartiene. L’ultima preposizione di un’inattesa riflessione. 

martedì 15 febbraio 2022

 Ci sono film che vai a vedere solo perché capita, in modo imprevisto. Comed andare all’Astra dopo tanti anni. Dagli anni di quella gioventù che voleva ancora cambiare il mondo. Quella di oggi non sembra, forse gli andrà meglio, chissà? Siedo tra loro,  per il film di una saga familiare, così viene presentato Walchensee Forever, docufilm di Janna Ji Wonders, che nella vita è anche cantante. Come ogni film quando lo vedi scopri che non può essere contenuto in una definizione. C’è una donna, che fa da cerniera nella storia. Quindi una figura forte ed invisibile. Chi di noi di un capo di abbigliamento ha mai espresso un apprezzamento per una cerniera. Eppure provate a farne a meno. Se non funziona, non si può indossare niente. Forte, tanto da arrivare a 104, acciaccata, ma lucida. No, non è la sua storia. Sta li, sul lago Walchensee da piccola, ed eredita l’attività di famiglia per obbedienza, all’epoca si obbediva al padre, in questa unica definizione viene racchiusa tutta la sua vita dietro ai fornelli del ristorante. Si vede anche la madre, forte e fiera è il cameo didascalico che la presenta. Ossuta, nervosa, sempre ben vestita anche durante il lavoro di cuoca. Nei filmati di famiglia mostra un sorriso deciso e decisamente non ama essere toccata, quando si avvicinano per abbracciarla e mettersi in posa, scaccia via. Lo fa due volte, in momenti diversi. No, non è nemmeno la sua storia.  La vita di Frauke e in parte della sorella Anna, che delle due sono filglie e nipote, di queste si racconta la storia. Figlie di una cuoca forte, ma rassegnata e di un fotografo creativo, ma addolorato, che ha fatto la guerra, la seconda grande, come il dolore che ha lasciato. Un dolore che si passa in eredità. In questo schema di famiglia tutto sommato fin qui ordinaria e ordinata, le sorelle Werner si mettono in viaggio. I viaggi si prestano ad essere raccontati. Dalla Germania al Messico, le due scoprono lo sciamanesimo, la spiritualità, i gruppi che cercano una via per uscire dal dolore ereditato e praticano la vita in comune. La droga lo ricordiamo tutti faceva parte del percorso di ricerca e la usano anche Frauke ed Anna. Ma è ora che ce ne rendiamo conto, quella non fu una generazione di drogati dissipatori. Fu una generazione che provoò sulla propria pelle tutto quanto era necessario per trovare un'altra strada dell'esistenza. Tutti i capitoli della storia li racconta Anna alla figlia Janna, che la intervista filmandola seduta  sul divano di casa. E sul filo del racconto passano le immagini da foto e filmati di famiglia. Un lavoro di montaggio ben fatto. C’è anche la foto dello schianto, una foto di giornale. Fu così che morì Frauke. Schizofrenica, passata per il manicomio. Succede quando senti dentro una vita che vuole trabordare, espandersi, anzi trascendere. Succede quando in te senti un’innocenza, una sete di libertà, uno spirito leggero che non può restare attaccato al corpo. Succede quando cerchi di continuo e non vuoi arrenderti all'uniformità, alla rassegnazione. Magari sei tanto forte da arrivare a 104 e fai tanta tenerezza. Magari senza di te non ci sarebbe stato un'altra generazione. Ma la tua vita resta tutta in "obbedì al padre" e si rassegnò. Adamo ed Eva non esercitarono questa opzione. E della loro scelta di libertà la Chiesa dice "felice colpa che ci ha meritato un si grande Redentore". Difficile da comprendere, come la vita stessa lo è, per questo bisogna andare per tornare. Nei loro spostamenti nel mondo le due donne incotrano anche Rainer Langhans, regista e lo scrittore, che le introduce alla meditazione e alla spiritualià indiana. Ecco la vera trama di questo bel film, una storia di donne che hanno cercato lo spirito della vita. Ciascuna con gli strumenti del proprio tempo. La fiera nonna, in ghingheri anche dietro ai fornelli. La forte mamma, obbediente e rassegnata. Frauke ed Anna, di una generazione che eredita il dolore da chi lo ha vissuto e cerca una via di consapevolezza e libertà per viverla pienamente.  Anna piange mentre racconta. Non è solo la commozione del ricordo, esprime la sofferenza di chi ancora cerca. Di chi testimonia che tutta la vita serve a questo, nessun tempo sarà mai di pace in questa ricerca. “Come è difficile” pronuncia raccogliendo le lacrime di chi non ha mai smesso di cercare. Mamma e figlia accudiscono la nonna di 104 anni, la “oma”, come sento pronunciare, il film è infatti in lingua sottotitolato. L’ho detto, è il film che ti capita di vedere, ma scopri che è il film che aspettavi di vedere. Perché mi ci ritrovo. Ritrovo i percorsi, gli inciampi, i dolori, le esperienze. Ritrovo la nonna anziana che si consuma facendosi piccina. Le tre siedono su una panchina di fronte al lago, la “oma” è al centro,  tra le sue discendenti bavaresi, piccina piccina di una poetica tenerezza. Questa scena è cristallizzata nella locandina del film. Le tre generazioni e la quarta evocata, stanno li a condividere i loro percorsi esistenziali. Quello di Janna è la regia e la musica. Contemporaneo. Forse la via più facile e borghese o forse la più complessa e ricca di possibilità di linguaggio per esplorare la consapevolezza, chissà? Di certo il film, il racconto mi ricorda che c’è al mondo un patrimonio di esperienza sulla ricerca di senso, di ciò che non funziona e di ciò che va ancora ben esplorato. Andare in India per esempio, è marginale. Ricercare una pratica che ti centri va perseguito essenzialmente. Le droghe fanno certamente male. La sobrietà della vita fa certamente bene. E così via. Così andare per non andare da nessuna parte è cosa diversa da restare per andare ovunque. Mi pare che per sempre Wallchensee suoni quasi come un’intenzione, un proposito, una risoluta convinzione. Mi ha fatto sentire normale. E mi ha fatto ricordare un detto.  La vita è come un albero, più affondano le sue radici, più alta si fa la sua chioma.

                                                                                        Arturo Lania

 

lunedì 31 gennaio 2022

 Napoli è una città di attori e di cantanti, si sa. Quando ci si alza in piedi ad applaudirli significa che sono bravi, davvero. Così è successo con Tonino Taiuti e Lino Musella alla fine dello spettacolo Play Duett. Per i più tecnici il genere è Jazz Session, insomma c’è anche una chitarra ed un’atmosfera jazz. Dentro la quale si muove un’energia di parole sapientemente governata dai due attori, che appunto giocano. Testi che vengono dal passato, quelli di Giovambattista Basile, di cui a breve si celebreranno gli anniversari di nascita e morte. Altri più contemporanei, i testi di Martone, intrecciandosi con altri di Petito, Viviani, Jacobelli e come detto con le vibrazioni jazz di una chitarra in sottofondo. Le voci appositamente gracchianti di Lino Musella, che si rimodulano in continuazione, dando vita breve, ritmica a personaggi diversi, narranti che giocano con figura apparentemente unica di Tonino Taiuti. Ma il suo personaggio si muove, attraversa la platea, esce di scena, vi ritorna, canta, recita, si rattrista, fa il comico. “ _Due nastri parlano tra loro. Di tragedie? Di vita dei giorni *nastri*_ “. Nessuno scroscio di risata, qualcosa di molto più da teatro, un flusso di piacere giocoso che si inocula nello spettare già incantato dalle parole, dalle voci, dall’atmosfera. Un lavoro, serio, costruito con maestria, che sintonizza gradualmente il divertimento del pubblico sul piacere di partecipare al teatro vero, dove la scrittura è significativa e l’interpretazione è arte. Sono attori come tanti Taiuti e Musella, ma tanto bravi che il pubblico contento li omaggia con un’ovazione di applausi. I due escono di scena passando tra gli applausi, colgo nel loro volto la soddisfazione profonda di chi sa di aver fatto bene il suo mestiere.

domenica 13 dicembre 2020

 

Il Bottone di don Alfonso

 

A Napoli non piove mai, c’è sempre il sole. Questo autunno ha voluto segnare la sua eccezione, piove spesso. In sé è un bene, pulisce l’aria, le strade, un odore di foglie e legni umidi condisce l’aria di un aroma di bosco, di castagne. Ad ottobre le strade del Centro Storico hanno ognuna un angolo per i bracieri di caldarroste, altari di un rito irrinunciabile. Mangiate nel cuppetiello di carta marrone, calde, calde, che scottano le dita, lenite da soffi vigorosi, per impegnarle temerariamente ancora nella sbucciatura del frutto boschivo. Un rito che ci accomuna a tante città del mondo, dove i centri storici scandiscono la stagione che prepara all’inverno con questo semplice cibo di strada, naturale e buono. Ma alle più belle e antiche tradizioni, un tempo infausto ha posto il suo chiavistello, rinviandole a tempi migliori, in un futuro di speranza. Oggi le strade sono vuote, deserte. Quando piove, l’acqua scivola via, il suo scroscio si perde negli spazi tra gli antichi palazzi, nel gorgoglio dei tombini, nel gocciolio delle grondaie. L’esperienza di passeggiare nell’antica città deserta mi è familiare. Mi rimanda ad anni, molto lontani, quando dopo le sette di sera non c’era una luce accesa e di giorno chi la percorreva aveva solo necessità di spostamenti per affari quotidiani. Non era visitata, ammirata, cantata. Per me invece già dai lontani anni ottanta è stata il mio luogo di rifugio, la mia casa, dentro le mura. Scendo dalla collina, dal Vomero. Arrivo alla fermata della funicolare di Montesanto proprio per rientrare attraverso la città antica. Piove, ma che importa, gli ombrelli servono a questo. All’imbocco di via Capitelli la pioggia ha già smesso, lascia traccia di se nel lucido dei basolati bagnati che riflettono la luce filtrata dalle nuvole grige. Piperno e pietra lavica si prestano bene a dare forma ad un’atmosfera pittorica, poetica, antica. Ripiego l’ombrello che punta non più il cielo, ma il terreno ed il tocco del puntale scandisce il mio passo mentre entro nella piazza con la Madonna Immacolata, che ha sconfitto col suo calcagno ogni male. L’obelisco che la celebra è alto 34 metri e la piazza che l’accoglie, in quella tipica formulazione delle cose napoletane, si chiama del Gesù Nuovo. La chiesa che ha la facciata a punta di diamante ha avuto la prelazione sull’intitolazione. Una piazza larga, ampia, condivisa con la basilica francescana di Santa Chiara. Di fatto è un sagrato, tra due chiese, come tutte le piazze della città antica. Mi dirigo sul lato sud, dietro l’edicola, dove è consuetudine che mi fermi a pregare la mia devozione alla Madonna e alle anime del Purgatorio. Alla basa dell’obelisco c’è una targa a firma del settecentesco papa Benedetto XIV, che sugella la concessione dell’indulgenza plenaria per un’anima defunta, per ogni atto di devozione compiuto in quel luogo alla Madre di Nostro Signore.   Mi accorgo che seduta a ridosso del muro di S. Chiara c’è una donna. Accanto ha l’ombrello aperto, capovolto. Si deve essere riparata durante la pioggia e lo ha riposto a suo modo al termine. Ha avuto cura di stendere una sorta di telo, con se ha alcune buste. Non cerca nulla, né vuole essere disturbata. Chi vive per strada ha familiarità con le intemperie e la pioggia di un tiepido autunno non la sconcerta. Quel momento di preghiera è speciale, per fissare lo sguardo all’effige dell’Immacolata è necessario guardare in alto, molto in alto, guardare il cielo. Gli occhi del cuore sono umidi, come è possibile la vita per strada di tante persone? Che sono sempre gentili, umili, miti. Che posso fare? O Cielo perché mai non fai qualcosa? Da sud si accede alla piazza dalla Calata Trinità Maggiore, anche quello è un nome che per un tempo ha avuto la chiesa a punta di diamante, mi accorgo che sale una figura familiare. Un vecchietto minuto, con giacchetta e coppolina. Gira per la città deserta sperando un un’elemosina. Un un povero da sempre, un povero storico. La sua vocina è minuta, gentile, sonora. La stessa dei cantanti di una volta. Anche lui si diletta nel canto. Mi viene incontro, sono fermo e gli è facile raggiungermi. Ha riconosciuto il gesto di preghiera nel quale mi ero raccolto e non mi vuole disturbare, si ferma a distanza. Cosa può essere di più giusto di lasciarsi disturbare dalla povertà? Gli sorrido e lui fa altrettanto. Mi avvicina per conversare. Il tempo, la città vuota, la difficoltà di questo tempo. Mi racconta che nella piazza viene per andare alla mensa dei francescani, che i frati hanno aperta nello spazio tra il convento maschile e quello delle sorelle di clausura. Piccola, ben tenuta, con volontari che offrono anche il calore di un momento di amicizia, di uno scambio di parole. Però è chiusa. La forza invisibile che ci domina ha dettato regole che invadono aspetti che si credevano inviolabili. <<Raccolgo quello che posso per farmi un panino o comprare un piatto caldo>>. Non chiede nulla, racconta e sorride con le labbra in ombra sotto la visiera della coppolina. I suoi occhi sono tinti dalla lava bagnata che ci circonda. Materia vulcanica, eruttata dalla sofferenza, per trovare poi la sua forma pacificata, pregna di storia. Parla di speranza, che nella vita non bisogna mai abbattersi. C’è gioia anche nel poco. E pure se capitano delle contrarietà bisogna sempre ritrovare il sorriso. <<Ad esempio una signora mi ha dato qualcosa poco fa. Qualche monetina… ed un bottone>>. Coglie il punto interrogativo che la mente disegna facendomi piegare il collo e avvicinare le sopracciglia. <<Ha aperto il borsellino e mi ha messo in mano delle monetine…, insieme ad un bottone.>> <<Mo’ di questo bottone che me ne faccio? Mica posso andare in salumeria e chiedere un piatto di pasta e dire vi do un bottone?>>. Accenno una difesa della sconosciuta donna che sospetto essere anziana, “forse non ha visto”. <<Vabbe’, non ha visto... Ma un bottone si tiene nel cassetto, si cuce su una camicia, mica si mette nel borsello. Che ci faceva nel borsello? E poi io che me ne faccio? Nemmeno c’è l’ho la camicia>>. Scherza, mi fa sorridere. Guardo l’altra donna, ancora seduta sul marciapiede, assorta con lo sguardo sulla piazza, per niente attratta dalla nostra conversazione. Allungo le mani nella mia tracolla per prendere il portamonete. <<Mi farebbe piacere conoscere il vostro nome, io mi chiamo Arturo>>. <<Alfonso. Che piacere, due A iniziali e quasi uguali>>. <<Tutti e due un po’ spagnoli. Don Alfonso se mi permettete vorrei offrirvi qualcosa da parte mia ed anche da parte della signora di cui mi avete raccontato.>>. <<Perché mai?>>. <<Diciamo che il bottone vi ha portato bene. Poi siamo sotto lo sguardo della Madonna>>. Alza la testa, ed accenna un segno di croce. Raccolgo qualcosa dal portamonete e glie lo porgo. <<Cosicché voi dite che il bottone porta bene?>>. <<Non sono superstizioso, dico solo che dovete andare via contento, diciamo “bottone benedetto”>>. <<Allora mi dovete permettere di ricambiare>>. Sono spiazzato per un attimo. <<Vi faccio dono del bottone benedetto. Così anche io benedico voi>>. Vorrei ricusare, ma non c’è ragione. <<E no dovete accettare. Voi avete detto che il bottone è una benedizione? Ed allora per ringraziarvi vi voglio benedire e vi regalo il bottone>>. Sorridiamo insieme. Forse anche la signora seduta,  che mi pare ora stia guardando verso il cielo. Ci salutiamo come si usa oggi, incrociando gli avambracci e ringraziandoci a vicenda. Guardo ancora la donna seduta. Mentre don Alfonso si allontana mi ricorda:<<Sorridere sempre. Nessuna avversità deve cancellare il sorriso>>. Nel palmo ho il bottone di don Alfonso, che racchiude la storia di quel momento d’autunno ai piedi dell’Immacolata.