domenica 25 ottobre 2020

La pioggia di ottobre


Ottobre è il mese dell’autunno, da sempre. Possono le temperature salire, ma il sole si allontana dalla terra, la sua luce diventa più tenue, i suoi bagliori più delicati, l’atmosfera invita ad uno sguardo intimo. Piove, in modo sottile, persistente, umido appena per sollecitare il corpo a quel tepore che lo allieta, che lo accarezza. L’ombrello protegge, almeno in parte, altre gocce che rimbalzano sull’asfalto intrisano le stoffe degli abiti, come se volessero dipingerli di se. Mi volto all’indietro, un moto lieve ed imprevisto, forse il picchiettio alle spalle, forse il fluido sulla schiena di tepore e brivido. Un volto incorniciato di biondo e due ampi orecchini mi sorride. Preso di sorpresa dall’incontro inatteso di uno sguardo, o chissà solo effetto di luce che modella le forme. Più in là un bimbo saltella divertito nell’accenno di pozzanghera sotto i suoi piedi, fermamente tenuto dalla paziente mano di mamma, impegnata con l’altra a tenere l’ombrello. Una coppia di fidanzati profitta dello spazio in cui devo tenersi stretti, per scambiarsi affetto con le labbra. Mi viene dal mio pudore distogliere lo sguardo da tanta intimità, ruotando e reclinando il capo come richiede il movimento. Il corpo nei suoi gesti produce leggere scariche elettriche che nella testa si trasformano in immagini. I ricordi sono scene tanto concrete che si rivivono come presenti, ogni volta. Bimbi divertiti corrono lungo il bagnasciuga, non distinguendo l’acqua del cielo da quella del mare che gli sta davanti, entrambe arrivano dall’immenso, dal blu, dallo spazio in cui espandere ogni fantasia. Ragazzi giocano a pallone sotto la pioggia, come i grandi campioni. Un anziano signore, di anni in cui si era nonni di tutti, impartisce la giusta lezione che i grandi campioni poi hanno saune e massaggiatori, forse è meglio trovare ricovero. Come quel giorno con la fiamma del cuore della giovinezza, correndo divertiti nell’atrio di un portone aperto. Affetti scambiati, sguardi, risate. Le stesse al concerto, per il temporale improvviso. Non valeva la pena correre, non c’erano portoni, solo aprire le braccia e lasciare la pioggia scivolare, anche la bocca si apre per un’accoglienza totale, ed il corpo danza a girotondo. L’allegria mi desta al presente. Ho lo sguardo rivolto in avanti. Il passo si fa più rapido, come a recuperare il tempo perduto. La mente non ha più le scene dei suoi ricordi, ma le sensazioni condiscono di se il flusso del sangue. La pioggia d’autunno termina, l’ombrello si richiude. Nello scuoterlo il polso si ferma. Gli occhi si intrattengono ancora su una scena, una terrazza bagnata dalla pioggia appena terminata, una tazza tra le mani, il paesaggio ammantato d’acqua argentea, nel cuore i progetti di vita come cristalli di sale, che si scioglieranno nel tempo. La clip chiude l’ombrello, il cielo resta tinto di grigio e l’asfalto restituisce le vibrazioni dei passi, tornati frenetici e decisi. Ha smesso di piovere. 

                                                                                             Arturo Lania

mercoledì 21 ottobre 2020

La luce del borgo

 

La luce del borgo

Tanto tempo fa, lo smartphone ancora non esisteva, il mio cellulare valeva nove euro e di certo non faceva foto, attraversavo spesso un certo borgo cittadino. Al meriggio si diffondeva la luce del tramonto che dorava di se gli edifici che parevano bearsi in quell’incanto. Una particolare combinazione di mescolanza con la luce dei banchi preparati per le prossime feste natalizie, che diffondeva intorno un’aurea serena e pacifica. Un incanto, che volevo trattenere. Con la macchinetta fotografica un giorno mi posizionai, in attesa della magica luce. Un’inquadratura incantevole, movimento di popolo nel “sogno dorato” tante volte dipinto da Luca Giordano. Uno scatto, poi un altro e un altro ancora. Assorto quasi, in quanto cercavo di catturare. Non mi accorsi che in fondo, di lato, fuori inquadratura un gruppetto di uomini, dal fare guardingo, a loro volta avevano inquadrato me. Tra loro un tipo  alto, vestito di nero, con uno spolverino e i capelli tenuti a coda di cavallo, si diresse deciso nella mia direzione. Aveva il fare del gregario che investito di un compito si preparava ad adempierlo con fare autoritario. Lo seguivano severi gli altri compari. Erano già a pochi passi da me quando mi accorsi del gruppetto e mi resi conto che il loro movimento mi riguardava. Ancora con gli occhi della mente assorto in quella luce dorata, con quelli del corpo fissai il tale con il nero spolverino e la coda di cavallo. << Questa è la nostra zona, tu qua non puoi fare fotografie!>>. Tutte insieme quelle parole erano così fuori contesto che faticai a dargli un’allocazione mentale per una razionale comprensione. L’espressione di stupore probabilmente accese di più il tono dell’uomo alto, vestito in nero, che mi intimò: <<Cancella subito! O me la prendo!>>. Immagino intendesse la macchinetta fotografica. Ancora troppo assorto, in stato meditativo, non si attivarono i ricettori e non partì la dose di adrenalina che genera paura. Al contrario, circolava sicuramente nell’uomo con la coda di cavallo. Fui quasi automatico porgere la macchinetta e aiutarlo a cancellare. Dovette sembrar loro molto facile, oppure da buoni professionisti della vigilanza non sentirono il bisogno di aggiungere altro e se andarono, con fare sicuro e duro.

Quando raccontai dell’accaduto a certi amici, si misero a ridere. Pare che pochi giorni prima una troupe televisiva aveva inquadrato la stessa scena, ma con intenzioni diverse. Anziché “il sogno dorato” di Luca Giordano  documentarono il prodotto dei sogni venduto nella zona, la droga. Quei tali erano quindi sentinelle dello spaccio di droga, che probabilmente avevano già dovuto rispondere di essersi fatti sfuggire la troupe. O forse ne tutelavano l’esclusiva, chissà?

La foto era rimasta nella piccola macchina fotografica. Il cestino che conservava i file cancellati prima di eliminarli definitivamente fece da scrigno alle mie foto. Quella scena così beata, l’atmosfera serena, l’aria aurea, le conservo ancora negli occhi. L’intreccio di quell’esperienza con un accadimento marginale, l’ha trasformata in un raccontino. Si usa poi fare una qualche considerazione. Che a dire il vero provo e riprovo, ma nessuna mi pare adeguata. Mi è venuto in mente il linguaggio: chi parla in quel modo , se viene da levante o da ponente è di quella pasta. Si potrebbe metterla anche sullo psicologico. O sui confronti di stili di vita. Persino formulare una conclusione tra luce e il buio. Ma nessuna di queste considerazioni mi pare sia adeguata ad una conclusione. Una constatazione forse sì. Ho vissuto un’emozione da ricordare. Per giorni avevo contemplato quella luce. La foto l’avevo preparata. Avevo atteso l’occasione di andare, l’ora e il momento culminante dello spostamento della luce del tramonto. Ho guardato i vari scatti molte volte dopo. I social non erano ancora un sistema di condivisione che utilizzavo. Ripeto la scena mi è rimasta nel cuore. Una scena nella quale quel gruppetto non c’è. Fuori dal margine dell’inquadratura non furono mai ripresi. Volevo raccogliere la luce e su di loro, pur stando nella stessa area, la luce non era mai scesa.  

                                                        Arturo Lania