Dio c’è, ma mi odia.
Se
digitate la stringa su Google, la troverete come citazione attribuita ad un
certo cantautore italiano. In verità l’ho letta tatuata su un giovane turista,
con tanto di genitori a seguito. Scritta di lungo, su un braccio, visibile
d’estate, quando si indossano tshirt
a mezze maniche. L’inverno manda in letargo anche i tatuaggi. Conosco tanti
giovani, che troverebbero in questa frase la sintesi adeguata del loro rapporto
con qualunque divinità creatrice. A dire il vero, anche diversi adulti. Con
buona pace del cantautore trovato da Google, la dicevo anche io, da giovane. Forse
per rabbia, ma mi sembra di ricordare che era più una sensazione melmosa, a
tratti disgustosa, dell’esistenza. La vita ci mette molto del suo per smontare
l’assioma di fede, la vita è un dono di dio e per questo ti ama. Se è un dono,
spesso farebbe comodo poterla riportare al negozio per scegliere un articolo
più soddisfacente. Chissà come sarebbe il mondo se in età preadolescenziale si
potesse compilare un modulo per richiedere la vita che si vuole e vedersela
consegnare man mano che si cresce fino alla sua piena realizzazione? Oh, pare
ci sia gente a cui le cose siano andate più o meno così. La frase “era il mio sogno dall’infanzia e l’ho
realizzato”, in televisione almeno, la sento dalla culla. Un’altra ancora
più bella: “ho avuto fortuna, la vita mi
ha dato tanto”. Allora è vero che si fanno preferenze lassù? A chi si e a
chi no. Così per molti, l’idea che l’amore di questo dio, qualunque cosa sia,
non è un granché, è abbastanza diffusa. Anche tra quelli come me, che sono
credenti. Credenti poi in che cosa? Tra l’altro, per la fede cristiana, la
questione non è affatto in cosa, ma in chi? Chi sarà mai questo Dio, che ci fa
dono di una vita, che spesso vorremmo riportare indietro, per prenderne una
nuova, fatta meglio? A leggere i Vangeli, questo Dio si è voluto fare uomo, in
questo modo si è infilato in questa vita, che a noi non piace. Anche nei
Vangeli si trova un sacco di gente fortunata, chi guarisce dalla lebbra, chi da
un handicap, chi addirittura risorge.
A fronte però ci sono tutti gli altri, malati di lebbra che non risanano, i portatori
di handicap che non riacquistano
facoltà, i morti che restano nella tomba. Per non dire di quei discorsi così
strani, circa l’amore per la povertà, per il prossimo e addirittura il nemico. “Ma mi faccia il piacere”, avrebbe detto
qualcuno. Eppure di questo Gesù se ne parla ancora e circa questo Dio non
sopisce il bisogno di confrontarsi. Avviene in quanto, per quelle parole
strane, c’è chi si è occupato degli altri lebbrosi. Ieri l’altro, venerdì 11
agosto, il Pakistan si è messo in lutto per suor Ruth Pafau, tedesca, che ha
lasciato l’eredità di 170 ospedali per curare la lebbra. Sul giornale Avvenire
ho trovato una testimonianza che riporto, in cui lei spiega la sua vocazione: «Il
primo paziente che mi convinse a cominciare la mia battaglia fu un giovane afghano.
Gattonava usando mani e piedi nel dispensario dove ci trovavamo, e si
comportava come fosse normale che un essere umano strisciasse a quel modo,
nella melma e nel fango». «Alcuni malati venivano addirittura spinti nel
deserto in modo che gli animali selvaggi li eliminassero». Da quelle parti del mondo un’altra
donna conosciuta come Madre Teresa, si è presa cura di tutti i tipi di handicap. Di chi faccia resuscitare i
morti non ho contezza. Ma se per morti si intende chi è morto dentro, di chi
non ha speranza, chi fugge dagli orrori che altri esseri umani gli infliggono,
allora sì che ho una bella lista di “resuscitatori”
da segnalare. In Messico padre Alejandro Solalinde si occupa dei migranti, per
aiutarli a sfuggire dai trafficanti, ha già fondato 57 rifugi. Da Famiglia
Cristiana riporto questo passo di un’intervista: «I migranti mi hanno cambiato la
vita. Hanno cambiato la mia visione teologica. Gesù è dentro
di loro. Sono loro i crocifissi di oggi. Vedendoli passare ho capito che la
Chiesa dev’essere povera, pellegrina, aperta ai poveri, evangelizzatrice e non
seduta in poltrona». Sappiamo tutti
bene, che media permettendo, la cronaca puoi riportarci ogni giorno nomi di
uomini e donne di buona volontà, che
hanno deciso che quel “Chi?” a cui dar credito, lo hanno trovato e seguito. Alcuni
li conosco personalmente. Come la mia carissima amica Lucia Precchia, che ha
passato tutta la vita ad occuparsi di bambini con handicap, e non contenta dei napoletani se ne va in Africa a
continuare. Conosco un parroco, don Michele Madonna, che in quel di Montesanto,
quartiere napoletano, dedica la sua vita a curare la più diffusa e dolorosa delle malattie umane, la giovinezza. Affiancando ogni giorni
i giovani per aiutarli a diventare adulti autentici. Conosco suor Dasy,
missionaria della Carità in quel di San Lorenzo, altro quartiere napoletano,
poi don Mimmo, don Arturo, suor Gioia, don Alex Zanotelli. Conosco anche altri
che in questi quartieri, cosiddetti di periferia,
pur trovandosi nel cuore della città, che operano a fianco di tutte le
sofferenze. Operano come quel samaritano, di una delle tante storie di quel
Gesù, affiancandosi a dei perfetti sconosciuti, per i quali ci rimettono tutto,
tutta un’intera vita. Il loro lavoro, la loro scelta, li ha messi a servizio di
tutti quelli che Gesù non aveva raggiunto. Ogni giorno questa opera viene
appannata nel racconto dei media, da tanto male che altri compiono. E se la
cronaca registra solo i fatti penali, ciascuno nel proprio quotidiano può fare
i conti con l’ipocrisia, le meschinità e la mediocrità di tanti che affollano
quell’emanazione di Gesù che si chiama Chiesa. Eppure per tutti i lebbrosi, i
malati, i sofferenti per ogni male, raggiunti dai samaritani di cui sopra, vi
assicuro, per loro conta solo il bene che li ha raggiunti. Allora se quella
vita che non ci piace, che vorremmo portare indietro per cambiarla, è proprio
da buttare forse meglio cercare uno di questi samaritani. Se al contrario, la
questione è il suo restauro, allora si può tornare a Gesù e alle sue parole.
Quelle con cui dice visitate gli ammalati, date da bere, date da mangiare, fate
qualcosa, qualsiasi cosa, affinché quando vi incontrano nel mio nome, nessuno
abbia più a dire Dio c’è, ma mi odia. Occupatevi piuttosto di far sapere che ci
sono e che li amo immensamente. Se cercate le parole proprio così come le ho
scritte, non le troverete. Sono più un significato che una preposizione. Un
significato che si può realizzare. Lo sanno anche le pietre, che quando si
sceglie di fare della propria vita un dare, quello che torna indietro è moltiplicato.
Quando si spende il tempo a curare, non si resta senza cure, a fare compagnia,
non si resta soli, ad amare non si resta senza amore. Per questa strada si
trova il significato di una buona notizia,
da annunciare, per se e gli altri, Dio c’è e ti ama.
Arturo Lanìa
Nessun commento:
Posta un commento